di Armando Fumagalli *

Come molti hanno notato, la selezione del Festival di Venezia è stata senza dubbio di notevole qualità. Generi diversi e stili diversissimi, ma ci piace sottolineare qui – al di là di tanti elementi di colore - l’importanza di alcuni film che hanno trattato tematiche economiche e sociali di rilievo. Adults in the room di Costa Gavras, fuori concorso, è per esempio un film che ripercorre dall’interno (è tratto dalle memorie del Ministro delle Finanze greco Yannis Varoufakis e ne segue il punto di vista) le concitate settimane in cui il nuovo team del neoeletto governo Tsipras ha tentato di negoziare maggior flessibilità e un allentamento della austerità che aveva portato la Grecia sull’orlo del collasso, con pesantissime conseguenze sociali. Numeri aridi e vite concretissime delle persone, leggi economiche e idiosincrasie personali (il film descrive le caratteristiche umane e psicologiche dei protagonisti in gioco, sempre rilevanti nel bene e nel male) si intrecciano in una cronaca intelligente e che pone con forza molte domande su quali sono le leggi e gli uomini che governano oggi l’Europa. 

Ha scelto invece uno stile sarcastico, servito da eccellenti interpretazioni di Meryl Streep, Gary Oldman e Antonio Banderas, il regista Steven Soderbergh per narrare in The Laundromat l’amara storia dei “Panama Papers” lo scandalo di decine di migliaia di scatole societarie costruite per evadere tasse e/o sottrarsi a obblighi di responsabilità economica da parte dello studio panamense Mossack Fonseca. Il caso del rimborso per un incidente mortale al marito di una anziana signora americana mette in moto il racconto e spalanca le porte su un sistema formalmente legale, ma nella sostanza ingiusto e marcio.

Uno dei film più applauditi – nonostante le polemiche iniziali sul suo regista Roman Polanski - è stato invece J’accuse, che ricostruisce, grazie alla scrittura del romanziere Robert Harris, sempre molto attento alle vicende storico-politiche, il caso Dreyfus: qui il punto di vista scelto non è quello dell’ufficiale francese ingiustamente degradato e detenuto, ma quello del capo dei servizi segreti, Georges Picquart, che scopre che le prove della colpevolezza di Dreyfus non stanno in piedi… Ricostruzione minuziosa, asciutta e solidissima di una vicenda ambientata a inizio ‘900, ma che ha tocchi di forte attualità sul tema dei whistleblowers e sulla  riluttanza delle istituzioni (qui il sistema militare e giudiziario francese a cavallo fra i due secoli) a riconoscere i propri errori e a mettere in discussione le proprie pratiche.

Al genere del cinema della realtà fa riferimento anche un piccolo film, unico italiano nella sezione Settimana della critica, Tony Driver. Ci piace parlarne qui anche perché il suo produttore, Marco Alessi, reduce dal successo a Cannes 2018 del film La strada dei Samouni, si è formato in Università Cattolica in quello che oggi è il master in International Screenwriting and Production, dove ora insegna. Tony Driver è la storia vera di un italiano, vero nome Pasquale Donatone, che dai nove ai cinquant’anni ha vissuto in America, dove era finito a fare il taxista per clandestini messicani che volevano varcare il confine. Preso dalla polizia e messo alle strette ha scelto l’espulsione invece del carcere. Ma ora in Puglia, a Polignano, sogna di tornare in America, dove sono rimasti moglie e figli e di varcare di nuovo clandestinamente il confine dal Messico… Mix di documentario e ricreazione intelligente di scene finzionali, il film, opera prima di Ascanio Petrini, attraverso una storia unica e in qualche modo estrema, mette in gioco temi universali come quello della casa e della patria, il sogno e la speranza di una vita migliore, ed è stato accolto con grande favore dal pubblico del Festival.

* docente di Semiotica e direttore del master International Screenwriting and Production