Una pandemia non l'aspettava sicuramente nessuno. Nemmeno, per quanto sempre pronti e educati, nelle aule e in tirocinio, a prepararsi a ogni “allerta”, i medici più giovani, particolarmente i neolaureati, in questa emergenza direttamente “in campo”. Abbiamo raccolto alcune delle loro storie


«Le nostre vite erano contenitori pieni di cose futili, prima che arrivasse il Covid. Sono cambiate soprattutto le nostre priorità, quasi come se questa catastrofe avesse risvegliato i nostri bisogni primordiali». Racconta così il suo impatto col Coronavirus da giovane medico Francesca Ponziani, dirigente medico dell’Unità operativa complessa di Medicina interna e gastroenterologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs, diretta dal professor Antonio Gasbarrini, ordinario di Medicina interna e gastroenterologia all'Università Cattolica.  Anche lei, come tanti colleghi si è trovata in prima linea nella battaglia al virus. Una sfida che ha inciso anche sulla vita privata.

«Ci manca il contatto con le persone che amiamo e soprattutto ci manca pensare a loro in libertà, senza confrontarci con la paura di essere un problema per loro. Mio marito è medico e anche lui impegnato nel fronteggiare questa emergenza, cosa che fortunatamente lasciato quasi invariata la nostra vita familiare. Penso a tanti colleghi che invece hanno dovuto distanziarsi dalla loro famiglia e dai loro figli, che in questo periodo sono la nostra “ancora di salvezza”, un grande sostegno e fonte di coraggio. Ci concedono uno sfogo, ci strappano un sorriso e ci ricordano sempre perché siamo qui oggi, a fare questi grandi sacrifici per altre famiglie che hanno bisogno di noi». 

Come si è modificato l'approccio clinico, assistenziale e organizzativo nella sua Uoc e, più in generale, nel Policlinico Gemelli? «Parlo da medico che si occupa dell’ambulatorio fegato, perciò capisce che l’attività convenzionale è stata completamente stravolta per tutelare la sicurezza degli utenti e per far fronte all’emergenza. Abbiamo continuato solo a garantire le prestazioni urgenti e necessarie per il bene dei pazienti. Ci siamo impegnati anche a livello nazionale per assicurare che gli standard condivisi fossero gli stessi in tutta Italia. In particolare, con l’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato (Aisf) abbiamo pensato di condividere con tutti gli epatologi italiani quali sarebbero state le prestazioni procrastinabili e quali quelle da tutelare e garantire (per esempio le terapie per i pazienti affetti da tumori o per quelli con grave disfunzione epatica). I reparti elettivi sono stati trasformati per poter accogliere i pazienti Covid, che soprattutto nei primi periodi, sono arrivati in grande quantità».

Esiste già un ricordo, uno sguardo, una parola che lei porterà con sé al termine di questa esperienza? Qual è stato, finora, l'insegnamento più grande? «Credo che le parole che porterò con me per molto tempo – che sono poi quelle che ho ascoltato più frequentemente - sono “non posso”. Sono parole che mi sono spesso trovata a dire e che sto vivendo sulla mia pelle in questo momento. Noi che siamo la generazione delle libertà, della democrazia, che non ha vissuto divieti stiamo confrontandoci con il buio delle limitazioni, comportamentali, emotive, economiche, affettive. Dire che non si può, è sempre difficile ma dire che non si può assistere o vedere una persona cara non mi era mai capitato. 

Sono parole dure da dover dire… «“Dottoressa, non vorrei che si sentisse abbandonato” è un’altra frase ormai quotidiana. Nemmeno a me era capitato finora di dover dire ai miei genitori (mio padre pluriottantenne, con patologia neoplastica in corso di terapia, ognuno ha i suoi problemi a casa) che per un po’ non avremmo potuto vederci, che non avrei potuto accompagnarlo io in ospedale. Ma per fortuna esistono le videochiamate, che usiamo con i pazienti, oltre che con i pazienti e i loro parenti. Aspettando che arrivi il crepuscolo e che possiamo uscire da questa situazione di privazione dell’altro». 

Qual è il messaggio che un giovane medico, in un'esperienza improvvisa, nuova e sfidante, vuol lasciare ai tanti ragazzi che ora, ancor di più aspirano a diventare Medici e Infermieri? «Che la medicina è tanto altro oltre alle formule e alla teoria. Che mai come adesso mi sono resa conto del valore dell’esperienza. Prima pensavo che tutto il tempo passato in gioventù in reparto dopo le ore spese sulla scrivania mi avesse aiutata a saper individuare meglio le patologie e a uscire dalle situazioni complicate. Ma la realtà è un’altra, fare il medico significa non aver mai finito di imparare e la nostra professione inizia proprio quando voltiamo l’ultima pagina del libro e iniziamo a relazionarci con la vita degli altri».


Quinto di una serie di articoli dedicati ai nostri medici in prima linea nella lotta al Coronavirus

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