di Renato Balduzzi *

Più volte e in contesti diversi mi è capitato e mi capita di riferirmi alla figura di Tina Anselmi (Castelfranco Veneto, 25 marzo 1927-31 ottobre 2016), e sempre la prima parola che mi viene in mente è parresìa, il coraggio evangelico di tirare avanti nonostante tutto, il rifiuto di calcolare vantaggi e svantaggi, la scelta di prediligere una testimonianza anche scomoda, ma mai bizzarra, perché radicata nella fede delle beatitudini.

Quello stesso coraggio che la porta, studentessa delle superiori a Bassano del Grappa, all’esperienza della staffetta partigiana e che sarà determinante nella scelta di una militanza sindacale e politica, coeva agli anni della sua laurea in lettere all’Università Cattolica. Il tutto accade e matura nella Milano dei primi anni del dopoguerra che, come l’Anselmi ricorderà nella propria autobiografia, costituiva un laboratorio permanente di dialogo culturale e di confronto tra diversi, e che trovava nell’Ateneo di padre Gemelli un vivaio di curiosità intellettuale e di spinta all’innovazione.

E per una donna ci voleva coraggio, in quegli anni, a vivere nel sindacato e nella politica, anche e soprattutto di area cattolica: coraggio e tanta pazienza e capacità di sopportazione, nei confronti della mediocrità, delle malelingue, del maschilismo che spesso fungeva da surrogato di un’inferiorità culturale e morale. 

Tina Anselmi attraversa tutto questo, e lo fa avendo sempre chiara l’importanza di valorizzare la figura femminile in campo sociale e politico, così come in ambito ecclesiale. Tra le tante iniziative di cui fu in proposito promotrice e che, come prima donna ministro della Repubblica (al Lavoro, nel Governo Andreotti III, nel 1976, trent’anni dopo la proclamazione in Assemblea costituente del principio di eguaglianza senza discriminazioni di sesso e dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi), ebbe la ventura di controfirmare, penso che una menzione speciale meriti la legge sulle pari opportunità nel mondo del lavoro, la n. 903 del 1977.

Anche nei confronti di parte del mondo ecclesiale, non sempre adeguatamente consapevole delle conseguenze del principio di laicità dello Stato che s‘impongono ai titolari di pubbliche funzioni, ella ebbe modo di esercitare la propria parresìa. 

La notorietà maggiore le venne forse dall’esperienza di presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia P2. L’intreccio tra massonerie, criminalità organizzata e pezzi di potere, pubblico e privato, fu da lei individuato, smontato e denunciato con fermezza e determinazione, e le risultanze dei lavori della commissione Anselmi costituiscono ancora oggi, a quasi trent’anni di distanza, un’imprescindibile testimonianza del degrado etico-politico di una parte del nostro Paese: ripartire da lì sembra ancora indispensabile se si vuole comprendere quanto di opaco, di deviato e di corrotto ancora alligna in mezzo a noi  (per convincersene sarebbe sufficiente sfogliare le pagine dell’ultima relazione – 2018 - della commissione parlamentare antimafia della XVII legislatura, nelle parti dedicate appunto alle relazioni tra gruppi massonici e mafie).

Vorrei però ricordarla soprattutto come il ministro della sanità che riuscì, vincendo resistenze politico-partitiche, corporative e professionali, a portare alla definitiva approvazione la legge di riforma sanitaria, la n. 833 del 1978, recante l’istituzione del Servizio sanitario nazionale. È singolarmente istruttivo assistere, in queste settimane di angoscia e preoccupazione, ai tanti peana a favore della sanità pubblica e del Servizio sanitario nazionale elevati anche da settori, gruppi e persone che, ancora sino a poco tempo fa, non smettevano di criticarne il carattere a loro dire eccessivamente solidaristico e universalistico. Se noi abbiamo potuto dotarci di un sistema che, a buon titolo, il mondo intero ci invidia, e che ci sta consentendo, in mezzo a tante difficoltà, di contrastare Covid-19, lo dobbiamo a persone come Tina Anselmi, Vittorino Colombo, Giovanni Berlinguer. 

Dal discorso alla Camera del ministro Anselmi poco prima dell’approvazione finale della legge riprendo i tratti descrittivi del nuovo sistema: “Globalità delle prestazioni, universalità dei destinatari, eguaglianza dei trattamenti, rispetto della dignità e della libertà della persona”. 
Difficile dirlo meglio. 

Quella generazione politica ebbe il coraggio di andare oltre al già innovativo e, per l’epoca, pioneristico art. 32 della Costituzione, la norma con la quale, per la prima volta nella storia del costituzionalismo, la salute entra in modo compiuto e consapevole in una costituzione statale: allargando la nozione di “cure gratuite agli indigenti”, la legge 833 ha costruito un sistema che le riforme successive hanno precisato, limato, implementato, ma mai negato (salvo forse in una piccola parentesi tra il 1992 e il 1993). La definizione dei Livelli essenziali di assistenza, i cosiddetti Lea, la loro specificazione negli standard strutturali, tecnologici e organizzativi (che impongono la riqualificazione dei servizi, senza accogliere la logica cieca, arbitraria e dannosa dei cosiddetti “tagli”), l’ancora incompiuta ma tuttora vitale integrazione tra i servizi sanitari e quelli sociali, tutto questo già stava abbozzato nella legge del 1978.

Di questa eredità non possiamo non essere grati a Tina Anselmi, donna di fede e di coraggio.

* docente di Diritto costituzionale, facoltà di Giurisprudenza, campus di Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore