di Rosa Rosnati *

Un percorso entusiasmante, qualche volta molto problematico. L’adozione porta con sé anche il rischio del fallimento. Secondo una ricerca da poco conclusa in Spagna la percentuale di minori allontanati dalla famiglia adottiva con interruzione dei rapporti è del 1,32% e sono il 4,4% i casi ad alto rischio seguiti dai servizi. Una percentuale esigua. Ma se passiamo ai numeri questo significa una adozione su 75. E, se pensiamo che le adozioni in Spagna negli ultimi 20 anni sono state circa 65.000, ciò significa che circa 900 bambini e famiglie sono state coinvolte.

Non è che la punta di un iceberg di molte adozioni davvero difficili, anche se non va dimenticato che la stragrande maggioranza ha un esito del tutto positivo. Ne ha parlato il professor Jesus Palacios, docente di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione all’Università di Siviglia, durante un seminario che si è tenuto il 10 maggio presso la nostra università, promosso dal Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla famiglia e dal dipartimento di Psicologia.

Quali sono i fattori più frequentemente associati al fallimento? Da più parti si sente parlare di un aumento del fenomeno e si propongono anche stime. Si tratta però di percentuali piuttosto azzardate, dato che in Italia ad oggi non esistono indagini conoscitive che consentano di mappare il fenomeno. Il Centro di Ateneo Studi e ricerche sulla famiglia ha avviato di recente una ricerca su questo tema che richiederà tempi lunghi di realizzazione, data la difficoltà di raccogliere le informazioni e di analizzare le diverse tipologie di casi.

Tra i fattori di rischio c’è certamente l’età all’adozione, così come emerge dall'indagine condotta in Spagna: più è grande il bambino, maggiore è la probabilità che abbia vissuto a lungo in istituto, che abbia avuto più collocamenti con la conseguente interruzione di rapporti magari significativi e che abbia sperimentato trascuratezza e magari anche maltrattamenti e abusi. Nel 40% dei casi di fallimenti si è trattato di adozioni di fratelli e nella metà di questi riguardava solo il fratello maggiore. Generalmente le difficoltà (comportamenti oppositivi e aggressivi e difficoltà nelle relazioni di attaccamento con i genitori, in particolare la madre), si sono evidenziate fin da subito, spesso minimizzate e considerate “normali” difficoltà della fase di adattamento.

Ma quello che stupisce più di tutto è sia la chiusura da parte delle famiglie, restie rivolgersi all’esterno e a cercare aiuti, sia il fatto gli interventi anche nel momento dell’esplodere della crisi siano stati per lo più sporadici ed effettuati da professionisti che solo raramente avevano competenze specifiche nell’ambito dell’adozione.

Cosa fare per prevenire e almeno per ridurre la percentuale di fallimenti? Innanzitutto è necessaria una indagine estensiva per mappare l’incidenza e i fattori connessi: sappiamo che l’Italia ha alcune specificità quanto a paesi di provenienza, età all’adozione, numero di fratelli e bambini special needs, che non rendono il nostro paese immediatamente sovrapponibile ad altri, nemmeno alla vicina Spagna.

Inoltre è assolutamente necessario potenziare la preparazione all’adozione e al post-adozione, ma anche formare dei professionisti, psicologi, assistenti sociali e neuropsichiatri infantili che abbiano nel proprio curriculum una formazione specifica su queste tematiche. Da questo punto di vista, da alcuni anni la Cattolica si sta attrezzando a più livelli, dai corsi universitari al master di II livello “Il lavoro clinico e sociale con le famiglie accoglienti: affido e adozione”.

*docente di Psicologia dell'adozione, dell'affido e dell'enrichment familiare e direttore del master "Il lavoro clinico e sociale con le famiglie accoglienti: affido e adozione" dell'Università Cattolica