di Giuseppe Lupo *

La recente trasposizione televisiva del romanzo di Elena Ferrante, andata in onda in questi giorni con altissimi indici di ascolto, ripropone all’attenzione il rapporto di un’opera letteraria con ciò che i teorici della ricezione definiscono “orizzonte di attesa”, soprattutto all’interno di un contesto che è altro rispetto alla letteratura, a partire certo dal linguaggio, il primo degli aspetti da tenere in considerazione in un fenomeno di traslitterazione da un codice a un altro. Siamo di fronte a una serie di romanzi che non hanno avuto bisogno di entrare nei canali televisivi per raggiungere il successo, anzi è probabile che sia stata proprio la capillare diffusione presso i lettori - e non solo quelli italiani - a indirizzarla verso una forma di racconto che ne ha modificato lo statuto letterario, passando dalle parole alle immagini.

Sarà difficile dire, per esempio, se in futuro ci ricorderemo di L’amica geniale così come ci è stata consegnata dall’autrice ma certo nel nostro immaginario, quando dovremo dare un volto alle bambine e alle adolescenti, protagoniste delle tre puntate iniziali, non potremo non pensare prima a Elisa Del Genio e Ludovica Nasti, poi a Margherita Mazzucco e Gaia Girace. Ciò conferma una tendenza tipica di una certa tradizione che si è nutrita di letteratura, assumendo titoli e argomenti da destinare alle pellicole e restituendo in cambio i volti da imprimere sulle copertine di quei libri, diventati film.

I casi potrebbero essere numerosissimi - ne abbiamo avuto qualche esempio nella mostra che si è tenuta a Milano, presso la Kasa dei Libri, sul confronto tra Claudia Cardinale e la narrativa fiorita durante il boom economico - e tenderebbero a evidenziare un aspetto che probabilmente costituisce un paradigma ormai consolidato: la letteratura ha fornito materia per il cinema, ma poi il cinema ha saputo rielaborare quel tipo di materia restituendo il racconto di una nazione in termini più efficaci rispetto a quanto siano stati in grado di fare gli strumenti della letteratura.

Ciò non significa che la resa in pellicola sia stata superiore al prodotto letterario: in qualche circostanza sì, in altre meno. Ma certo non si può ignorare il valore che la tv o il cinema ha attribuito a determinate opere letterarie così potenti, così cariche di significati da veicolarsi per vie naturali verso il linguaggio delle immagini. Come non pensare a quella tv in bianco e nero di cui si è nutrita l’Italia degli anni Sessanta? Chiediamoci che tipo di funzione ricoprivano gli sceneggiati di Sandro Bolchi o di Anton Giulio Maiano rispetto ai palinsesti di questi ultimi anni, in cui sui teleschermi sono approdate molte storie uscite dalla penna degli scrittori ma probabilmente con una necessità modificata rispetto a quella di cinquanta/sessanta anni fa.

Negli anni in cui la nazione sognava di crescere, narrare per immagini la storia di Renzo e Lucia o le vicende della famiglia di Lazzaro Scacerni (mi riferisco in questo caso al romanzo di Riccardo Bacchelli, Il mulino del Po) aveva un ruolo pedagogico, contribuiva cioè al processo di edificazione morale di un popolo che cercava nelle storie narrate dai grandi romanzi i germi di una identità.

Oggi probabilmente, a scenari completamenti mutati, non solo l’edificio morale di un popolo ha cessato di esigere una propria necessità, ma le serie tv cercano sistematicamente di offrire la spettacolarizzazione del degrado, la manifestazione del male come assunto in cui galleggia la vita degli uomini, il desiderio di graffiare la realtà rischiando di rovinare le pareti della nostra casa comune, in cui a volte riesce difficile riconoscerci. Mettere al mondo un’opera che descriva il quotidiano (sia quello malavitoso del clan camorristici o dei tanti commissari Montalbano in cerca di colpevoli), narrare il dolore come condizione permanente dell’uomo, mappare l’orizzonte già risaputo non soltanto contribuisce a rappresentare lo squallore che ogni giorno ci sfiora, ma azzera quel desiderio di tracciare i confini di un mondo che ci sta a fianco, vive di una propria vita, ma non lo abbiamo ancora scoperto.

* Docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università Cattolica