di Luca Peyron *
 
A quanto rivelano fonti di stampa, Reply - impresa nata a Torino e oggi globale, con fatturato a molti zeri (unica ex startup che supera 3,5 miliardi di valore di capitalizzazione), giocatore interessante e forte del mondo digitale - prende casa negli uffici storici di Fiat. La chiamo Fiat per evocare nel marchio quello che è stata la Fabbrica Italiana Automobili Torino. Non si tratta solo di un trasloco o di una operazione immobiliare, è un segno dei tempi che va letto e interpretato, un ponte tra il passato e il futuro che fa fermata in un presente in cui il territorio e le sue forze migliori debbono giocare insieme la partita dell’innovazione illuminata dall'etica, dello sviluppo animato dalla sostenibilità, del profitto attento al bene comune. 

La trasformazione digitale si rende visibile nella trasformazione industriale rivelando uno dei caratteri che sono proprio del digitale, una rivoluzione per sostituzione, in questo caso del tutto e iconicamente evidente. Nelle stanze del Lingotto, parola che al torinese non evoca Fort Knox, ma il potere della fabbrica sulla storia di questa terra, correranno i bit al posto dei bulloni. 

Caricare di significati evocativi la transizione è forse eccessivo per una terra che continuerà ancora a lungo ad avere o sperare di avere nella manifattura di che vivere, tuttavia resta un segno forte del tempo che cambia e un messaggio chiaro per chi deve progettare il domani. Vorrei sottolineare solo un aspetto tuttavia decisivo. La cultura della fabbrica ha segnato profondamente, nel bene e nel male i decenni scorsi, la cultura del digitale sta facendo e farà lo stesso. In quel caso la cultura della fabbrica è stata di fatto subìta, raramente scelta, difficilmente governata in una tensione ideologica che lasciava pochi margini. Tuttavia in quella tensione i campi contrapposti erano chiari così come i soggetti che li incarnavano, c’erano corpi intermedi ben precisi e le interlocuzioni, anche violente, si facevano attorno a un tavolo con volti e sigle. 

La cultura digitale di matrice imprenditoriale ha sino a oggi seguito lo stesso percorso, ma senza più quei volti e quelle contropartite. L’impresa tech, soprattutto i grandi, perseguono un fine legittimo e ultimo che però non può essere semplicemente accettato o subito così come si presenta: performance e profitto non possono essere l’asse portante delle scelte di una società nel suo complesso e le strategie d’impresa non possono essere l’agenda di un territorio o di una nazione. Abbiamo bisogno di una cultura digitale a cui anche l’impresa partecipa, ma come corista e non come solista. La verità è sinfonica diceva un grande teologo: accordiamo gli strumenti nelle more del trasloco.  

* teologo Università Cattolica del Sacro Cuore