Può sembrare paradossale ma l’Italia è un Paese che presta poca attenzione alla crescita dei più piccoli. Soprattutto se si guarda all’educazione. La povertà educativa rappresenta infatti uno degli elementi che maggiormente penalizza i minori italiani rispetto al resto d’Europa. A dirlo sono gli ultimi dati del WeWorld Index 2018, il rapporto annuale elaborato per misurare il progresso di 171 paesi del mondo, prendendo come riferimento le condizioni di vita di soggetti particolarmente marginalizzati come donne, adolescenti, bambini e bambine.

Secondo l’analisi che, anche quest’anno è stata presentata all’Università Cattolica durante un incontro promosso il 19 aprile dalla facoltà di Scienze politiche e sociali, l’Italia perde ben 9 posizioni nel ranking rispetto allo scorso anno, raggiungendo il 27° posto, chiaro segnale di come la povertà educativa sia un fenomeno di matrice ereditaria e lo status economico delle famiglie possa influenzare pesantemente il benessere dei minori e la loro inclusione in ambito educativo. Si tratta di una situazione che, in alcuni contesti, tende a perpetuarsi nel tempo: secondo le ultime statistiche, infatti, - 8% dei giovani si laurea se entrambi i genitori non hanno un diploma di scuola superiore e - 68% dei giovani si laurea se entrambi i genitori sono laureati.

Il WeWorld index è realizzato dall’omonima onlus non governativa che, da lungo tempo, si occupa di inclusione, difesa dei diritti e lotta contro la discriminazione. Per il 2018, l’indice presenta un focus specifico: i ricercatori hanno preso in esame l’educazione inclusiva e di qualità, cercando di individuare tutte quelle barriere che ne impediscono una concreta attuazione.

Ma come è stato costruito nello specifico? A spiegarlo è stata Elena Caneva, ricercatrice di WeWorld. «Nella costruzione dell’index si è tenuto conto della sua natura multidimensionale: oltre ai soggetti protagonisti e a dimensioni più classiche come la salute o l’educazione, si è tenuto conto anche del contesto. Un contesto sostenibile o pacifico rappresenta un incentivo al concretizzarsi del meccanismo dell’inclusione». Sono state prese in considerazione 17 dimensioni, 34 indicatori - scelti tra quelli presi in analisi dalle banche dati internazionali - e 5 barriere: denutrizione, migrazioni interne, violenza, ereditarietà della povertà, discriminazioni di genere. Per ogni paese, è stata individuata una cifra rappresentativa dell’inclusione a partire dalle categorie considerate ed è stata poi stilata una classifica con l’utilizzo di numeri relativi nell’attribuzione dei punteggi. Quest’anno, al primo posto della classifica c’è l’Islanda che, per la prima volta, supera la Norvegia, mentre in fondo si posiziona la Repubblica Centrafricana.

Quanto più un paese si trova in condizioni difficili per donne e popolazione under 18, tanta più fatica a risollevarsi e migliorare nel breve periodo. Quale può essere, dunque, la soluzione migliore per promuovere l’inclusione e stroncare la dispersione scolastica? Sicuramente, avviare un dialogo nazionale e investire sullo sviluppo umano per produrre altro sviluppo umano. Per un paese, infatti, investire sull’educazione non determina solo un arricchimento personale, portando alla creazione di una società fondata sull’uguaglianza e la parità di genere, ma anche un incisivo arricchimento in termini economici.

Imperativo più che necessario per l’Italia. Secondo Emanuele Russo, coordinatore italiano della Global Campaign for Education, il nostro Paese «deve inserire l’educazione tra le priorità di un’agenda che non sia solo quella della politica ma anche quella dei singoli cittadini. Sta a loro riprendere in mano la situazione, pretendere di ritornare al centro del dibattito sull’educazione e riaffermare il ruolo storico della tradizione italiana in ambito scolastico». Insomma un percorso ancora lungo.