di Francesca Marelli *

Class 1B, Good Hope School, Sombetini, Ngusero, Arusha. Sono le coordinate del mio International Volunteering e mi fanno dire che parte del mio cuore apparterrà per sempre alla Tanzania. 

Da tempo coltivavo un insieme di desideri che, forse, ho sempre tenuto nascosti dentro di me: andare, fare, viaggiare, conoscere altre culture, immergermi in un nuovo mondo, comunicare con gli altri, imparare usi, costumi, lingua locale ma, soprattutto, mettermi alla prova e sentirmi utile. Qualcosa è scattato in me e ho deciso di partire.

Ed è così che, con tanta voglia di buttarmi in qualcosa di nuovo, un sabato di luglio ha avuto inizio la mia avventura africana. Dopo aver conosciuto Giorgia, quella che sarebbe stata la mia compagna di avventure per tutte e tre le settimane e si è rivelata una parte fondamentale dell’avventura, un sottofondo di musica africana ha cullato il nostro viaggio verso Sombetini, Ngusero, il paesino dove avremmo risieduto per il resto della nostra esperienza.

Durante tutto il viaggio, i miei sensi si attivano e comincio ad assaporare l’atmosfera che mi circonda: profumi, colori, luci, suoni, musiche. Dal finestrino il paesaggio scorre veloce e mi sento già felice. Vedo la gente camminare sul bordo della strada, donne con bambini, ragazzini vivaci, alcune signore dai vestiti colorati con in testa cesti di frutta. Il sole sta calando ed eccolo lì, il primo tramonto africano. Di un arancio infuocato, la palla di fuoco va a nascondersi dietro ai monti, lasciando una luce arancio-rossastra che scalda il paesaggio. E insieme, scalda anche il cuore.

Arriviamo a destinazione, ad Arusha, nel piccolo villaggio di Sombetini. Varchiamo la soglia del Lionsgate Hostel, la nostra futura casa. Ci accoglie Giulia, una ragazza ventinovenne italiana. Ci guarda, ci riconosce come connazionali e subito ci abbraccia forte. Non ho mai sperimentato una forza così grande in un abbraccio di una persona sconosciuta. Mi chiedo se sia così difficile affrontare questa esperienza. Col passare dei giorni, tutte le mie preoccupazioni svaniscono.

Gli occhi dei bambini incontrati a scuola, i canti in swahili, gli abbracci delle insegnanti e i minuti di silenzio spesi con la testa rivolta verso l’alto a goderci quel magnifico cielo stellato:  sono i ricordi più belli che mi porterò dentro per sempre. Tutti quei bimbi, i loro sorrisi, le loro mani piccole, gli sguardi curiosi, le dita che toccavano i miei capelli biondi e le braccia tese in alto in attesa di darmi il cinque dopo aver detto a gran voce “Me, Madam!”. È veramente difficile spiegare a parole le emozioni provate in quelle tre settimane alla “Good Hope School & Orphanage”. Nella mia testa, ma soprattutto nel mio cuore, la “Class 1B” ha lasciato ricordi indelebili: quei sessantotto bimbi scatenati, con l’uniforme nera e bianca, le scarpe slacciate, gli strappi sui maglioncini e le scarpe sporche di terra e polvere. Gli occhi grandi, profondi, sinceri.

Ognuno con le sue particolarità, ognuno diverso. Ester con la cuffietta marrone in testa, Lineth e la sua scrittura ordinata e precisa, Sara con le treccine colorate e qualche problema con le addizioni, ma occhi grandi e sguardo dolce, Fariha con in testa il velo bianco che le orna il viso dolce, Asajile che durante la lezione mi guarda e ride con quello sguardo da piccolo rubacuori, Hamza che alza gli occhi in cerca di approvazione dopo una sottrazione il cui risultato non lo convince affatto, Happiness con quel nasino a patata, sempre in cerca di un abbraccio, Lightness che, dopo una brutta giornata, mi guarda come per trovare conforto nel mio sorriso empatico, Hans, il più grande di tutta la classe, Ramazan che teme che io mi dimentichi il suo nome… ma che non sa che mai e poi mai potrei dimenticarmi di nessuno di loro.

Le loro mani piccole, strette con le mie. I girotondi, i canti e i balli in classe. Madam Mariam che canta con loro in swahili, che prende i quaderni di ognuno e li chiama per nome, ogni giorno. I disegni appesi in classe, i banchi di legno, le matite, sempre troppo poche, la pausa di metà mattina, che non sempre veniva loro concessa, a seconda della loro buona o meno buona condotta, il metodo di insegnamento africano e certi aspetti della cultura locale così distanti dai nostri e quindi così difficili da comprendere. Ma nonostante i momenti più duri e gli attimi di sconforto, non ho esitazioni nel dire che tornerei subito da tutti loro.

Molti dicono che a fare volontariato in fin dei conti non si aiutino solamente gli altri, ma si ritrovi addirittura se stessi. Potrà sembrare una frase fatta, ma è esattamente quello che ho provato. Sono partita con l’idea di aiutare, ma sono tornata a casa con la certezza di aver ricevuto aiuto. Volevo donare affetto, ma gli abbracci ricevuti e quegli occhi profondi mi hanno fatto sentire amata. Volevo emozionare, ma mi sono emozionata. Volevo portare sorrisi, ma ho ritrovato il mio.

Nakupenda Tanzania, I love you Tanzania.

* 24 anni, di Cellatica (Brescia), studentessa del corso di laurea magistrale in Scienze linguistiche (indirizzo in Management internazionale), facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere, sede di Milano