Dalle aule di largo Gemelli alla laurea in Psicologia fino alla carriera di produttore, regista e conduttore televisivo. È un percorso insolito quello di Riccardo Pasini, fondatore di “Prodotto, fattori di videoevoluzione” e Brand Entertainer, come ama definirsi anche sul suo profilo Twitter. La scelta di psicologia non è stata casuale. «La decisione di fare tv è sorta ancor prima dei miei studi universitari. Fin dall’età di tre anni ero affascinato dal piccolo schermo. Il desiderio di inseguire il sogno di lavorare in televisione è maturato dopo».

Perché proprio la facoltà di Psicologia? «Volevo fare l’Università, con l’intento di frequentare un percorso di laurea che mi fornisse strumenti sia teorici, sia pratici. Da questo punto di vista psicologia era il corso perfetto perché come principio fondamentale ti consente di capire il tuo interlocutore nell’atto di comunicare. Eppure all’inizio era scontato che avessi frequentato Scienze della Comunicazione, avendo sostenuto anche il test d’ingresso».

Che cosa è successo? «Un amico di famiglia, Enzo Baldoni, un grande pubblicitario, mi suggerì di valutare anche altre possibilità. Così, dopo una serie di considerazioni, mi sono reso conto che Psicologia faceva al caso mio. E feci una scommessa: rinunciare all’ammissione che avevo già in tasca tentando un altro test di ingresso».

Una mossa che si è rivelata vincente. «Infatti, il percorso in Università Cattolica mi ha dato l’opportunità di avere dei contatti, con professori, personalità, ma soprattutto aziende. Un punto di partenza che ancora oggi sta dando i suoi frutti nel mio lavoro quotidiano, dove serve essere anche un bravo psicologo».

Cosa le interessava di più? «La televisione via internet, a cui ho dedicato la tesi di laurea. La mia ricerca, seguita dal professor Carlo Galimberti, è iniziata nel 1997 e si è conclusa nel 2001, in un periodo in cui parlare della rete non era così scontato».

Durante gli anni universitari si è sempre e soltanto dedicato allo studio? «Fin da subito ho cercato di affiancare lavoro e studio. Dopo il primo anno di università ho iniziato a lavorare al canale Tv di Antenna 3. Andavo in redazione al mattino e uscivo alle otto di sera, facendo avanti e indietro da largo Gemelli agli studi in piazza Duomo. Sono stati anni frenetici. Ma credo sia stata una decisione corretta frequentare le lezioni e fare esperienza sul campo, con la voglia di imparare, non di lavorare, che è una differenza importante».

E poi? «Ho fatto di tutto: dal realizzare il sogno dell’infanzia di condurre un programma su Rai2 al fare l’autore, il regista, il direttore di rete, il produttore, persino il direttore di un telegiornale. Tutte cose che, poi, mi hanno portato alla mia attività attuale, nata perché ero stufo di sentirmi dire: “Dovresti decidere cosa fare da grande”. Così ho fondato Prodotto, fattori di videoevoluzione, che rappresenta una buona sintesi delle mie esperienze».

Di che cosa si occupa? «La mia società è nata cinque anni fa, con l’intento di portare in Italia  il Branding Entertainment, da non confondere con il Product Placement o il Brand Content. Mentre il primo consiste nell’uso della marca in un contesto in cui è richiesta, come il cinema per esempio, il secondo è la massima manifestazione di promozione del prodotto, destinata ad un pubblico che lo conosce già, ma che vuole saperne di più».

Brand Entertainment cosa significa concretamente? «È un’espressione che sintetizza ciò che potrebbe essere la videoevoluzione della televisione abbinata alla comunicazione pubblicitaria. In altre parole, qualsiasi genere di attività in video, e non solo, che parte dalla natura del brand, finanziatore dell’operazione, per generare un’impresa editoriale che ha lo scopo di coinvolgere e fidelizzare l’utenza».

E il Brand Entertainer chi è? «Un professionista che realizza un prodotto puramente editoriale, che però in sé porta il messaggio del brand stesso e si esprime nel momento in cui può essere percepito dall’utente finale come positivo. In questo modo, chi opera nel settore crea un mondo intorno al brand, nel quale fa confluire tanti utenti, creando un luogo di scambio di continua informazione dove è possibile raccontare con efficacia la marca. Io mi definisco Brand Entertainer proprio perché sto facendo il produttore, investendo i capitali che riesco a mettere insieme a fronte di una mia idea, realizzata dal mio staff. Però tutto viene fatto per un brand, che richiede di trasformarlo in qualcosa di simpatico, di desiderato e raggiungibile. In altre parole il nostro lavoro consiste nel trasformare in una dimensione di intrattenimento una marca».

Oggi l’intrattenimento in video per il pubblico giovanile è prettamente sulla rete. Come valuta il fenomeno dei ragazzi di YouTube? «Personalmente apprezzo questi fenomeni, ma prima di chiamarli professionisti ce ne vuole. È dilettantismo che diventa fenomeno. Tuttavia bisogna tener presente quale sia l’accezione che si decide di dare al termine “fenomeno”, perché ci sono dei casi molto positivi che si trasformano in qualcosa di unico e altri che non lo sono per nulla, restando scintille che si accendono e si spengono».

Quindi gli YouTubers creano solo chiacchiera e numeri… «Non sto dicendo che siano esclusivamente questo. Però il rischio è alto, perché così come internet dà la possibilità a chiunque di esprimersi e di raccontarsi, diventando anche fucina di talenti, allo stesso tempo tutti si rivolgono al mezzo della rete per farsi un nome facilmente, senza rendersi conto che a reggere il tutto è la viralità, fatta con materiale video realizzato con serietà e senso critico».

Eppure qualcuno ha profetizzato la morte della tv. «Nel 1997 si diceva che internet avrebbe ucciso la televisione. Non è così, anzi i due media sono interconnessi. Ad esempio i vari post o tweet che accompagnano un programma televisivo esistono perché è stata data loro una funzione dalla Tv. Viceversa, l’incremento della percentuale di share dei programmi esiste grazie alla partecipazione in rete. La comunicazione via internet, intesa come alternativa a quella canonica dei media più longevi può essere una buona opportunità, ma solo se gestita con metodo».

Questa interazione funziona sempre? «Non si deve commettere l’errore di identificare il massimo risultato di intrattenimento con il massimo livello di attività per l’utente. Se si forzasse troppo la mano su questo versante il rischio sarebbe di perdere una buona fetta di pubblico. Il punto è che bisogna guardare ai cambiamenti come riferimento per creare innovazione e trovare una formula nuova, seppure gli ingredienti siano sempre gli stessi, appunto internet, social network e televisione».