di Damiano Palano*

Di solito il “Super Tuesday” segna uno snodo fondamentale nella corsa delle primarie americane, perché consente di capire quali saranno alla fine i candidati alla Casa Bianca. E anche in questo caso – come i sondaggi avevano anticipato – le consultazioni hanno contribuito a dipanare una matassa molto imbrogliata. Sul fronte democratico, pur senza ottenere una vittoria piena, Hillary Clinton con il migliaio di delegati conquistati fino a questo momento (compresi anche i “superdelegati”) sembra aver maturato un distacco ormai piuttosto rilevante nei confronti del comunque sorprendente Bernie Sanders, che può disporre solo di 427 delegati e che per ora non è riuscito a far breccia tra le minoranze e nell’elettorato femminile. Sul versante repubblicano – dove invece il confronto è senz’altro molto più acceso – il miliardario Donald Trump ha riconfermato la posizione di testa (arrivando per ora a 319 delegati).

Tecnicamente – è bene tenerlo presente – siamo comunque ancora alle fasi iniziali della corsa. Per quanto riguarda il campo democratico, è stato assegnato infatti solo poco più di un quarto (circa il 28%) dei delegati che nella convention di fine giugno a Philadelphia dovranno designare ufficialmente il candidato alla presidenza. E ciò significa che a Hillary Clinton mancano ancora quasi 1400 delegati per raggiungere la maggioranza. La partita è invece ancora più aperta sul fronte dei repubblicani, che finora hanno eletto meno del 25% dei delegati. Per diventare il candidato ufficiale, Trump dovrà dunque ottenere nei prossimi mesi poco meno di un migliaio di rappresentanti (più o meno il triplo rispetto a quelli già conquistati). Anche per questo gli avversari di Clinton e Trump non sono affatto tagliati fuori dal gioco. Certo i margini da recuperare per Sanders sono ormai piuttosto ampi (nonostante affermazioni importanti, che tengono ancora in partita il senatore del Vermont). Ma soprattutto Cruz sembra ancora in grado insidiare la posizione di vertice di Trump (mentre Marco Rubio appare decisamente staccato). E così saranno determinanti le primarie che si terranno nelle prossime settimane soprattutto in Michigan, Florida, Illinois, Ohio, Washington, New York e Pennsylvania, e cioè in Stati che assegnano una quota notevole di delegati.

Se tutti questi elementi inducono a considerare con cautela gli esiti del “Super Tuesday”, molti analisti si sono spinti a prevedere che lo scontro per la Casa Bianca vedrà alla fine come protagonisti proprio Hillary Clinton e Donald Trump.  Le primarie assomigliano in effetti a una gara di ‘resistenza’, in cui a contare sono soprattutto le risorse finanziarie. E specialmente per i candidati che non hanno alle spalle appoggi consistenti, le prime tappe del lungo viaggio elettorale diventano spesso decisive. Un successo ottenuto nelle prime tornate – magari anche in Stati poco ‘pesanti’ in termini di delegati – può risultare vitale per attrarre quei finanziamenti indispensabili per proseguire la campagna. Mentre una sconfitta può indurre al ritiro persino candidati con appoggi molto consistenti (come è avvenuto nel caso di Jeb Bush).

Così è effettivamente molto probabile che i due candidati che oggi si trovano in testa saranno davvero i protagonisti delle elezioni di novembre. E qualcuno non ha mancato di sottolineare che, dinanzi al discusso miliardario newyorkese, sarebbe quasi scontata la vittoria dell’ex-Segretario di Stato, che a quel punto potrebbe agevolmente diventare il primo presidente donna nella storia degli Stati Uniti. Secondo molti osservatori (e secondo i sondaggi), Trump sarebbe infatti destinato ad avere la peggio, principalmente perché non riuscirebbe a conquistare interamente il sostegno del tradizionale elettorato repubblicano, il quale anzi lo vedrebbe con un certo sfavore, se non con timore. Anche se le cose potranno davvero andare in questo modo, le sorprese non vanno però essere escluse. E d’altronde sono proprio le indicazioni che giungono da queste anomale primarie a suggerire molta cautela.

Gli ultimi mesi hanno infatti segnalato alcune tendenze interessanti. La prima delle quali è la debolezza delle oligarchie partitiche, che – anche per gli effetti della ‘disintermediazione’ – si sono rivelate del tutto incapaci di fronteggiare e ostacolare la ‘scalata’ di outsider radicali come sono, in modo diverso, Sanders, Trump e Cruz. La seconda è invece una conferma ulteriore – se davvero ce ne fosse stato bisogno – del potenziale delle retoriche ‘populiste’, che hanno peraltro nella cultura politica americana radici ben più profonde che in Europa. Tanto Sanders quanto Trump – con argomentazioni e stile certo molto differenti – hanno infatti conquistato buona parte del loro inaspettato successo attaccando Wall Street e accusando la classe politica di sudditanza nei confronti della finanza. E proprio l’incrociarsi di queste dinamiche – insieme ovviamente alla trasformazione che la società americana ha vissuto negli ultimi dieci anni – ha contribuito a determinare due risultati imprevedibili solo fino pochi mesi fa. E cioè il seguito di un candidato che non esita a definirsi ‘socialista’ come Sanders e il successo – persino sconcertante, specie se visto dall’altra sponda dell’Atlantico – di un personaggio come Trump, che ha fatto della propria ignoranza e della propria volgarità una sorta di “brand”.

Naturalmente le primarie seguono logiche specifiche, che non sono quelle delle elezioni politiche. Ma forse non è da escludere che gli elementi emersi finora debbano tornare nella fase finale della competizione per la Casa Bianca. Anche perché uno degli effetti della ‘disintermediazione’ sembra essere anche l’eclissi (almeno parziale) dell’«elettore mediano». Fino a qualche tempo fa era quasi indiscutibile la vecchia regola secondo cui “le elezioni si vincono al centro”, e cioè conquistando quell’elettorato ‘moderato’ che si trova più o meno al centro del mercato politico. Da almeno dieci anni le cose stanno invece cambiando. In un contesto in cui la centralità della tv viene insidiata da flussi di comunicazione ‘personalizzati’, che vanno a ‘stanare’ il singolo elettore, la competizione tende a ‘polarizzarsi’, nel senso che il messaggio delle forze politiche si radicalizza. In tempi di disaffezione, è infatti diventato sempre più importante convincere ad andare a votare gli elettori (soprattutto quelli più lontani dalla politica), e i messaggi più radicali sono spesso strumenti formidabili di mobilitazione. Ed è probabilmente per questi stessi motivi che i consulenti di Hillary Clinton non potranno permettersi di sottovalutare i rischi di uno scontro con un personaggio come Trump.

* Ordinario di Scienza politica nella facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore