di Giuseppe Lupo *

Sarà uno scherzo del destino, ma è davvero curioso che l’annuncio del Premio Nobel 2016 a Bob Dylan sia stato dato poche ore dopo la morte di Dario Fo, altro nobel fuori squadra e fuori compasso, altro nobel anomalo come questo a Dylan.

A dir la verità gli accademici di Svezia ci hanno abituato a queste sorprese, non sempre condivise e condivisibili: diciannove anni fa un commediografo, adesso un cantante, in ogni caso due cantastorie. Prima o poi premieranno un pittore e forse un ballerino: ogni disciplina presuppone la sua espressività, ogni arte è fondamentalmente scelta di un codice, adozione di un linguaggio, cioè uso di parole. In fin dei conti, letteratura.

È facile supporre che la motivazione verterà sui testi delle canzoni più che sull’aspetto sonoro e dunque si rischia di passare per tradizionalisti dichiarando di essere sorpresi che i testi di Bob Dylan abbiano ricevuto il più importante dei premi al mondo.

In realtà, questa notizia impone un altro tipo di riflessione: fin dove si estende il concetto di letteratura? Non sarebbe il caso di ragionare su ciò che appartiene a essa e ciò che invece no? Nessuno vuole riesumare dall’armadio il vecchio discorso che Benedetto Croce aveva affidato alle pagine della sua Estetica (1902), nello sforzo di separare la poesia dalla non-poesia.

Quel vecchio abito si era subito impregnato di naftalina e il Novecento, che entrava proprio all’altezza di quel libro, avrebbe dimostrato che molta della poesia (se non addirittura la migliore) sarebbe uscita fuori dalle contaminazioni di argomenti non strettamente deputati alla sfera letteraria, dalla mescidazione di vocabolari e di strutture.

Ma certo in questi anni, pur accettando l’idea che la letteratura è diventata altro, pur non rinnegando la sua immagine inclusiva (e non esclusiva), diventa necessario tornare a definire le finalità e i compiti di ciò che chiamiamo libri, se non altro perché lo sconfinamento dei ruoli e delle strutture determina confusione e la confusione, il disorientamento generano quella percezione del tutto e del niente, quel languore decadente in cui ogni cosa finisce per assomigliare a un’altra e ne prende il posto, si sostituisce in maniera indolore.

Nulla contro Bob Dylan, naturalmente, che ha nutrito la mia generazione e anche le successive con la sua voce da menestrello ambulante. Ma la sua vittoria è un ulteriore segno di questi tempi in cui la letteratura ha imboccato la strada del divertimento, regalando a tutti quella sensazione di labile onnipotenza secondo cui è sufficiente usare le parole (qualsiasi parola, anche la più consumata dal web) per convincersi di aver composto un poema omerico.

* scrittore e docente di Letteratura italiana alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica