di Maria Lo Monaco *

Ventuno giorni trascorsi tra mille volti, mille storie, mille sguardi e lo scambi di intense emozioni. Donne silenziose, bambini che domandano: «Musungu, give me some sweets» e non sai mai se è una stupida pretesa, legata allo stereotipo dell’uomo bianco che porta cibo e  caramelle e cibo. Uomini che si sentono accolti e ricambiano l’affetto che cerchi di donare loro con una calda stretta di mano e tanti “Grazie!”.

Non potrò mai dimenticare, in particolare, il “thanks doctor” e gli occhi di una mamma che avevo appena aiutato a partorire e alla quale stavo mostrando la sua bambina. È in questa terra di contraddizioni e speranze, che la vita irrompe oltre la miseria e il sottosviluppo, con la forza instancabile dell’amore che crea e dà vita.

Porto nel cuore anche il semplice sorriso, profondo, pieno di luce ma anche “limato” dalla sofferenza, di una donna che vendeva cassava (tipico cibo africano) per strada e con timida gentilezza ha risposto alla mia domanda su cosa facessero i suoi figli, dicendo che l’aiutavano dal momento che non aveva i soldi per le tasse scolastiche.

Mi ha, invece, amareggiato la rassegnazione che, spesso, si legge nei gesti di tanti uomini: nella malattia, nella cura, nel lavoro, nella vita.

Ho avuto modo di conoscere e incontrare persone speciali, ricche di umanità, di solidarietà viva e vera. Ho conosciuto persone splendide che hanno saputo emozionarmi e rubarmi il cuore, che mi hanno regalato parole, sorrisi e gesti d’amore.

“Good morning my friend!” è il saluto che una donna, che avevo assistito una notte, in seguito a un’emorragia post partum, mi riserva la mattina dopo.

È quando sei qui che ti accorgi che i rumori della tua bella città, gli egoismi, le difficoltà della nostra quotidianità si alimentano di una “linfa” di superficialità.

È quando sei qui che inizi a interrogarti su come puoi veramente essere utile all’altro; un altro che può essere il bambino nero scalzo che ti corre vicino o un tuo amico che ti chiede dieci minuti di tempo per parlare.

Ho provato a vivere l’Africa. Ho provato ad assaporare i suoi effluvi. Ho provato a contemplare i suoi colori.

Li ho cercati nella volta stellata di un cielo che ti avvolge; nella luna alle cui fasi sembra essere collegato il numero di vite che si apprestano a lasciare il caldo grembo materno; nelle albe e nei tramonti in cui i colori più vari si mescolano e si rincorrono; in una natura multicolore che si staglia tra il deserto e le piantagioni di caffè, avocado e banane; nella musica africana che di notte riempie le strade; nel canto del gallo che annuncia il giorno e la speranza di risorgere; negli occhi luminosi dei bimbi che sbucano dai sentieri polverosi e che ti danno la gioia di vivere, oltre la povertà e la polvere che li avvolge; nei volti luminosi dei giovani (e tra questi molti infermieri Acholi del Benedict Medical Centre) che cercano un futuro affrancato dalla miseria della condizione presente e, soprattutto, passata; nelle madri che legano alle spalle il frutto del grembo dal futuro incerto; nei pochi anziani che si trascinano, segnati da una vita di stenti e amarezza.

Mi piacerebbe poter dire che, ormai, l’Africa fa parte di me ma, purtroppo, tre settimane sono troppo poche per farlo. Posso dire che, grazie al Charity Work Program, ho avuto l’opportunità di iniziare a conoscere, capire cosa significa vivere più o meno lontano da quelle antiche rive del Nilo, al di là della visione, non sempre autentica, che riceviamo nelle nostre comode case, grazie ai mass media.

Non so se al termine di questo periodo sia stato più quello che ho dato che quello che ho ricevuto. Ho sentito affievolirsi le mie ansie, le mie preoccupazioni, ho ricevuto una vera iniezione di gioia e vitalità. Dall’«I have a dream» di aiutare, con cui ero partita, ritorno con l’«I have a goal», che è quello di imparare ad aiutare ma, soprattutto, di imparare come aiutare ad aiutarsi. Mi viene da urlare: «Risorgi, Africa! Io sono con te».


* 22 anni, di Mistretta (Me), quarto anno del corso di laurea in Medicina e Chirurgia, facoltà di Medicina e Chirurgia, campus di Roma