di Chiara Mussida *

Lo hanno chiamato “sciopero delle donne”. L’8 marzo 2017 vuole essere una giornata di vera lotta per il riconoscimento del ruolo della donna nel lavoro produttivo e riproduttivo e contro ogni forma di violenza fisica, psicologica, culturale ed economica.

Uno “sciopero globale”, a cui hanno aderito 40 Paesi del mondo e al quale parteciperanno milioni di donne. Anche il movimento Women's March di Washington ha aderito. Le forme tradizionali del lavoro produttivo e della lotta si combineranno con il lavoro riproduttivo (lavoro di cura), invisibile e quotidiano, ancora appannaggio quasi esclusivo delle donne, ancora sottopagato e gratuito. Sarà uno sciopero dai ruoli imposti dal genere in cui mettere in crisi un modello produttivo e sociale, che pone le donne in una condizione di svantaggio.

In Italia parteciperanno allo sciopero anche numerosi Centri Antiviolenza con l'obiettivo di cambiare la cultura fatta di stereotipi che genera la violenza contro le donne.

Lo sciopero è in primo luogo una forma di lotta che si fonda sul blocco della produzione e sull'astensione dal lavoro – produttivo e riproduttivo - con l'obiettivo di produrre un danno economico e di rendere tangibile il ruolo del lavoro delle donne nella produzione e nella riproduzione. Obiettivo raggiungibile quello del danno economico?

Per valutare l’eventuale efficacia dello sciopero occorre stimare l’impatto economico/le ripercussioni dello stesso in termini di lavoro produttivo, “riproduttivo” e di costo della violenza contro le donne.

Il solo costo del lavoro “produttivo” è trascurabile. Alcune stime (Istat, Ocse) mostrano che un giorno di “vacanza” in più si traduce in una riduzione di 2,5 ore lavorate all’anno, pari allo 0,1 per cento (del totale ore). Inoltre, la correlazione tra giorni di “vacanza” e produzione industriale e manifatturiera non è statisticamente diversa da zero. Non esiste quindi evidenza empirica a favore dell’ipotesi di una rilevante perdita economica da un giorno di “vacanza” in più.

Tuttavia per le donne occorre considerare anche il lavoro “riproduttivo”, gratuito, che include numerosi compiti di cura della famiglia: il modo più semplice di quantificarlo equivale a considerare i mariti come sostituti delle mogli in questi “compiti” di cura, quindi quantificare l’equivalente di una giornata di lavoro “produttivo” persa dal marito per occuparsi del “riproduttivo”.

Dunque, con buona approssimazione, costo doppio, ovvero “produttivo” e sostituzione “riproduttivo” dei mariti.

Ma non finisce qui. Le ripercussioni dello sciopero possono raggiungere dimensioni assai consistenti e “globali” se, come auspicato, contribuisse a sensibilizzare contro la violenza femminile, i cui costi complessivi stimati sono elevatissimi, pari a circa 17 miliardi di euro. I costi della violenza non sono solo monetari, ma includono l’effetto di moltiplicatori economici (mancata produttività per le imprese, minore partecipazione delle vittime di violenza al mercato del lavoro) e sociali (erosione capitale sociale, peggioramento qualità della vita).

* Docente di Economia del lavoro, facoltà di Economia e Giurisprudenza, sede di Piacenza