di Giuseppina Monteleone *

Dopo svariate ore di volo atterro all’aeroporto Julius Nyerere con il mio compagno di viaggio Mattia e due medici volontari, Roberto Plazzi e Giovanni Scozzari. Incontriamo subito il nostro autista Philipo e attraversiamo una Dar es Salaam che si sta appena risvegliando dal sonno tra le fantastiche luci dell’alba africana. Davanti ai miei occhi si estende un paesaggio completamente nuovo fatto di piccoli edifici in legno o in mattoni con il tetto in lamiera ma soprattutto gente che cammina a piedi a bordo strada vestita con i kanga o katinga dai colori vivacissimi.

Attraversiamo diversi paesaggi, da quello della capitale Dar es Salaam, a quello dei campi coltivati, alla vegetazione bassa, al parco del Mikumi dove le giraffe, gli elefanti, le antilopi e le zebre sono a bordo strada, alla valle dei baobab, ai piccoli villaggi che sorgono prospicenti alla strada i cui colori colpiscono per la loro luce. Mi sento catapultata in una storia tra “On the road” di Kerouac e “Uomini e topi” di Steinback. Ci fermiamo a mangiare una pannocchia arrostita e a comprare papaie da un banchetto in legno nella valle dei baobab. È lì che vedo i primi bambini che si avvicinano timidi. Chiedo a una bimba il nome, “jina”, è “Shila”. La piccola in microfashion mi colpisce per la sua pelle scura e i suoi occhi sorridenti e per il suo vestito rosso che veste con un portamento quasi adulto; mi abbraccia con timidezza e la seguono tutti gli altri bambini.

Dopo svariate ore di viaggio in macchina, il paesaggio si riempie di pini e raggiungiamo Iringa e poi Njombe dove la strada asfaltata lascia il posto a una strada in terra rossa che al nostro passaggio si trasforma in una nuvola di polvere densa. A un tratto, gli alberi si diradano e si intravede una grande costruzione bassa dal tetto rosso, l’Ikonda Hospital. Scesi dalla jeep, ci accolgono padre Sandro, Antonella Cassano, il dottor Giampaolo, Paola, Virginia, Carmen, il dottor Antonio, il dottor Marco, padre Riccardo, il piccolo grande Alberto e la dottoressa Manuela. La prima parola che imparo a cena è “juzi”, l’«altro ieri» in shwaili, che si pronuncia proprio come il mio nome, Giusy. Decidiamo subito che Mattia avrebbe seguito il dottor Giampaolo nella medicina interna uomini o male ward, io invece avrei seguito il dottor Giovanni alla Maternity ward.

La mattina alle 8.00 ci riuniamo per il meeting del personale dell’ospedale che si tiene tutte le mattine per tirare le somme sui numeri dei ricoveri e dell’andamento generale: le facce amiche dei dottori africani e delle infermiere ci accolgono calorosamente. Alle 8.30 sono nel reparto di maternità con indosso il camice bianco e un grande sorriso per la nuova esperienza che mi si presenta davanti. Ad accogliere me e Giovanni c’è il dottor Adam Arum, il giovanissimo medico in charge della maternità, la signora Onorina, l’infermiera in charge che ha l’aspetto tipico della “mama” africana e mi saluta con un “habari” a cui io rispondo “nzuri”.

Iniziamo il round tra i 27 letti dalla stanza del travaglio. Sei sono occupati da donne in travaglio, parte delle quali dovrà affrontare il cesareo poco dopo. Entriamo nella stanza dei prematuri, una rarità rispetto agli ospedali locali statali, che non ne posseggono una e mandano i piccoli pazienti qui a Ikonda; il caldo ricorda quello di Dar es Salaam e i piccoli, avvolti nelle kanga colorati, dormono tranquilli con i loro visi che spuntano dal cumulo di coperte. Finito il giro, ci rechiamo nella sala operatoria per effettuare i quattro parti cesarei della giornata.

È la prima volta che assisto a un cesareo ed è la prima volta che entro in una sala operatoria: il dottor Giovanni e il dottor Adam si preparano e io rimango con loro. Il primo bambino a nascere è un bellissimo maschio di quasi 3 kili. Procede così fino al quarto cesareo della giornata che ci regala inaspettatamente due splendidi gemelli. Nessuno poteva vederlo ma dietro la mascherina sorridevo ed ero l’aspirante dottoressa più felice dell’Africa: ho sentito la stessa sensazione che si prova guardando l’alba dalla vetta di una montagna dopo una lunga scalata. Il primo respiro e il primo pianto del bambino sono suoni che riesco a sentire ancora quando chiudo gli occhi.

Dopo i parti e il round, l’attività essenziale nel reparto è l’esame delle pazienti nella “examination room”: dopo aver steso le loro kanga colorate sul lettino le pazienti si stendono timide e si lasciano esaminare; il dottor Giovanni e il dottor Adam mi guidano pazientemente e io tocco i pancioni delle pazienti, capisco quanto è grande il bambino, in shwaili “mtoto”. Nel reparto di maternità, grazie al sapiente insegnamento impartitomi, ho imparato a usare l’ecografo di reparto: il momento più emozionante è, dopo aver trovato la testa e individuato l’età gestazionale, seguire la colonna vertebrale fino a vedere il battito del piccolo nello schermo.

Non l’ho mai detto quando ero là ma ogni volta che trovavamo il “fetal hearth” nella mia testa incominciava a risuonare “Love never felt so good” di Michael Jackson e il bambino nell’ecografo si muoveva a ritmo di musica e potevo vederlo mettersi la manina in bocca e guardare il femore cambiare posizione come se nuotasse. In tre settimane nel reparto di maternità ho avuto un bellissimo quadro dell’idea di maternità che hanno in Tanzania: una donna affronta tante gravidanze per veder vivere non tutti i suoi bambini; le donne si realizzano come madri e infatti, in caso di infertilità, ricercano spasmodicamente l’aiuto medico che Giovanni, dall’alto della sua quarantennale esperienza, forniva loro sapientemente.

Per quanto io fossi inesperta, mi sono sentita considerata anche nel processo diagnostico e nella vita della maternità. In venti giorni ho visto casi che in Italia avrei visto in un tempo molto più diluito o non avrei mai visto: casi di sifilide, gravidanze isteriche, pre-eclampsie, gravidanze extrauterine, moli vescicolari e purtroppo carcinomi alla cervice in uno stadio avanzatissimo e incurabili. Una vera e propria piaga sociale è l’Hiv, molte delle “mama” della maternità erano sieropositive o addirittura nello stadio di Aids conclamato. Dopo pochi giorni dal mio arrivo, si è unito al nostro team di reparto Meinard, uno studente di medicina del quinto anno nato a Ikonda ma trasferitosi in Algeria per l’università; lui è stato il mio compagno di viaggio nel mondo della ginecologia e dell’ostetricia, ci siamo fatti forza a vicenda nei momenti più tristi e scambiato nozioni utili.

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Per avere un quadro ancora più completo della sanità africana, ho voluto per una settimana seguire il dottor Marco, il cardiologo, una persona fantastica, sapiente in ogni campo che assiste i clinical officer del pronto soccorso con i pazienti cardiologici. Nonostante, per la giovane età, fossi a digiuno di cardiologia, Marco mi ha insegnato ad ascoltare la “sinfonia” del cuore che batte quando si poggia il fonendoscopio sul torace. Ancora ricordo il suo paragone tra il suono di apertura della valvola mitrale cardiaca e lo scocco della pietra focaia: poetico e brillante.

I clinical officer del pronto soccorso sono stati gentilissimi con me e mi hanno reso partecipe del processo diagnostico dei vari pazienti. Durante la mia settimana di conoscenza del mondo della cardiologia, ho potuto vedere le varie lesioni cardiache e, a malincuore, ho potuto constatare che sono molto frequenti le lesioni della valvola mitrale causate da deposizione di immunocomplessi a seguito di faringotonsillite in ragazzi di età inferiore a 14 anni. Questi ragazzi non hanno la possibilità di subire l’operazione per il posizionamento di un pacemaker perché in Tanzania questo tipo di intervento chirurgico non si effettua tranne che in pochi casi nella capitale e devono recarsi in India, una spesa non sostenibile per le famiglie.

Oltre al mondo ospedaliero, ho potuto sentire un po’ del sapore della terra di Ikonda. Uscita dai cancelli dell’ospedale, dopo pochi metri di strada asfaltata, raggiungo la strada di terra rossa che mi impregna i vestiti. I negozi in legno o in mattoni lasciano subito il posto a vegetazione di pini e a coltivazioni di mais sparse tra le case. La musica in shwaili impregna l’aria e camminando, ti senti parte integrante della terra e della comunità intera che ti accoglie dicendo “ciao sister” oppure “habari mzungu” (ciao bianca). Quando scende il buio è uno spettacolo di colori: il tramonto si proietta nel cielo, sulle montagne che circondano Ikonda e sui kanga colorati delle donne.

Una vecchia canzone del Musical Rent diceva: “Five hundred twenty five thousand six hundred minutes. How do you measure, measure a year? In daylights, in sunsets. In midnights, in cups of coffee. In inches, in miles, in laughter, in strife. How do you measure, a year in the life? How about love?”. Io non lo so come misurerò questo mese passato qui: in kanga colorate, in capelli intrecciati, in occhi neri, in bambini stupendi, in granelli di polvere rossa per strada, in case di legno e cartone o in sculture di ebano. Non so come lo misurerò ma so che mi rimarrà per sempre.

* 22 anni, di Noicattaro (Ba), quarto anno del corso di laurea Medicina e Chirurgia, facoltà di Medicina e Chirurgia, campus di Roma