Irreparabilità e indifferenza. Le ha vissute entrambe la senatrice a vita Liliana Segre. Da bambina. Negli anni della guerra, della deportazione nei campi di sterminio. Lei, piccina, si è trovata vittima della follia degli adulti.

Irreparabilità e indifferenza. Due parole che la senatrice ha spiegato bene a una platea di studenti delle scuole superiori milanesi ed alcuni universitari, durante l’incontro nell’aula magna dell’Ateneo lo scorso 10 maggio dal titolo “A ottant’anni dall’emanazione delle leggi razziali: istituzioni e società per una memoria attiva”, promosso dalla Prefettura di Milano.

Irreparabilità: «Sono nata a Milano da genitori ebrei e laici. Ma soprattutto da cittadini italiani, orgogliosi di esserlo. Avevo otto anni quando sono stata espulsa dalle scuole elementari. Per la colpa di essere nata. Ho sofferto la solitudine: non ero mai invitata alle feste dalle mie compagne di scuola cattoliche e il telefono era sempre muto. Poi l’entrata in vigore delle leggi raziali ha costretto me e mio padre a fuggire in Svizzera, dove siamo stati arrestati. Ho provato all’età di tredici anni quello che iniziava ad essere l’irreparabile: per quaranta giorni sono stata rinchiusa nella cella 202 a San Vittore. Per la colpa di esser nata. Fino alla deportazione ad Auschwitz. Ricordo ancora quel silenzio spaventoso durante il viaggio. Arrivata al campo di sterminio l’irreparabile si stava compiendo. Chi ha visto l’irreparabile, i colori e gli odori della carne bruciata non ti abbandonano più».

Nel febbraio 1944 Liliana Segre arriva al campo di sterminio. Per un anno lavora presso la fabbrica di munizioni Union, che apparteneva alla Siemens, per poi essere deportata in Germania. Poi liberata dall’Armata Rossa il primo maggio 1945 a Malchow, un sottocampo del campo di concentramento di Ravensbrück. Liliana Segre fu tra i venticinque bambini italiani sopravvissuti all’Olocausto dei 776 deportati. Il ritorno a casa, però, fu tutt’altro che semplice.

Ecco, dunque, l’indifferenza: «Tutti si sono tenuti ancora una volta lontani. Eppure è proprio l’indifferenza che ha permesso la violenza. Ciò che è triste è che l’indifferenza c’è ancora oggi». Concetto ripreso anche dall’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini: «Indifferenza è quando diciamo che quello che capita agli altri non ci tocca. Per questo dobbiamo chiedere scusa da parte dei nostri padri e nonni che hanno permesso che tutto questo accadesse». Gli fa eco il sindaco di Milano Giuseppe Sala: «Sono passati ottant’anni dalle leggi raziali. Qualcuno aderì e qualcuno si oppose. Lo stesso avvenne a Milano. Oggi è assurdo immaginare la presunta superiorità di una razza su un’altra. Siamo un’unica razza umana. La nostra città deve essere d’esempio».