di Antonio G. Chizzoniti *

“Sono certo che Dio sia solo un pretesto. Non crederò mai che Dio stia con chi uccide in suo nome”. Sono le parole nette con le quali Angelino Alfano, nel suo recente libro “Chi ha paura non è libero. La nostra guerra contro il terrore” (che si presenta a Piacenza) sin dall’inizio non vuole concedere al terrorismo di matrice religiosa alcun alibi. Questa ferma convinzione, del ministro dell’Interno, se non basta a sgombrare le insidie che l’intreccio tra politica e religione, del quale l’Islam oggi è un esempio emblematico e quanto mai attuale, aiuta ad attribuire a questo elemento il giusto peso nella lettura di una vicenda (quella del terrorismo di matrice religiosa) che si sviluppa su più piani intrecciati e contrapposti. 

La partita, ce ne siamo bene accorti negli ultimi anni, tocca temi sensibili quali la tutela dei diritti umani, basti pensare al disastro umanitario vissuto dalle popolazioni siriane e irachene e nord-africane interessate dal terrore sviluppato dalle milizie del califfo nero Abu Bakr al-Baghdadi, o dai terroristi di Boko Haram nel nord della Nigeria, proprio in nome di Dio. Ma interessa, inutile nasconderlo, ancor più il nostro quotidiano di “tranquilli cittadini occidentali” con la messa in discussione di libertà e tutele (sicurezza, libertà di movimento, tutela della privacy, costumi) alle quali non vogliamo e non possiamo rinunziare perché a base della nostra stessa democrazia. 

In una perversa spirale di congiunture negative che si autoalimentano tutto sembra cospirare per il peggio. Le difficoltà economiche interne ed esterne rendono sempre più difficile la gestioni di flussi migratori imponenti e incontrollabili, incrementati e alimentati anche dalle crisi umanitarie di zone che fino a poco tempo fa non erano interessate da tale fenomeno. Allo stesso tempo la massiccia appartenenza alla religione musulmana di questi migranti alimenta la convinzione che anche da ciò derivino gli attacchi terroristici portati negli ultimi mesi al cuore dell’Europa.

“Puntare il dito contro un musulmano o pretendere che si giustifichi quasi fosse un criminale sarebbe il regalo più grande che potremmo fare ai nostri veri nemici” anche in questo caso il pensiero di Alfano è netto. Ma anche la religione e i fedeli a essa appartenenti devono fare la loro parte. Lo ha ricordato recentemente in un incontro tenuto presso la sede piacentina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore da monsignor Silvano Tomasi, a lungo Osservatore permanente della Santa Sede presso l’Onu a Ginevra, grande esperto di questioni mediorientali e recentemente nominato da Papa Francesco segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace: già oggi in Europa vivono circa 40 milioni di fedeli mussulmani, cifra destinata a superare i 60 milioni nello spazio di poco più di un ventennio. Questi futuri cittadini europei dovranno sapersi confrontarsi con i valori fondanti di una democrazia che deve essere sentita come propria anche da loro. E tra questi monsignor Tomasi ha ricordato il riconoscimento pieno della libertà religiosa, l’uguaglianza per la donna e la distinzione tra politica e religione. Quest’ultimo ritengo sia uno dei punti cruciali. 

Secondo un recentissimo sondaggio condotto nel 2015 dal Pew Research Center in 10 paesi a forte maggioranza musulmana, il mondo islamico è nettamente diviso su quale dovrebbe essere il rapporto tra principi dell’Islam, leggi e forme di governo statuali. Ancora forte (con punte che vanno dal 78% del Pakistan, al 54% della Giordania, ma anche 48% del Senegal) è la convinzione che le leggi del proprio paese debbano rigorosamente seguire gli insegnamenti del Corano. 

Comunque significativo il numero di coloro che si dichiarano a favore di una distinzione tra norme religiose e norme civili (60% in Burkina Faso, 42% in Nigeria e Libano, 36% in Turchia) che sommata alla percentuale di chi propende per una adesione ma non rigorosa (acquisizione di valori) alle leggi coraniche (52% dell’Indonesia, 37% del Libano, 38 della Turchia, 32% del Senegal) raggiunge in molti casi una netta maggioranza a favore di una qualche forma di separazione tra Stato e religione. Ma ancor più significativo è il dato che emerge dall’analisi delle scelte espresse in ragione del diverso grado di istruzione degli intervistati. In più della metà dei paesi interessati le persone con istruzione superiore secondaria o superiore sono maggiormente propense a una separazione, con differenze quasi sempre superiori ai 20 punti percentuali.
 
L’istruzione è senza dubbio una delle vie principali per un’efficace integrazione, una scelta da accompagnare alla garanzia di una concreta libertà religiosa per quella stragrande maggioranza di fedeli musulmani che vivono in Italia e in Europa (sempre più da cittadini) e che nulla hanno a che vedere con il terrorismo. Una “maggioranza silenziosa” da aiutare e alla quale chiedere aiuto per fermare il terrore. 

* direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche, Università Cattolica del Sacro Cuore – Piacenza