Il rettore Anelli con padre Mounir«Il Libano è un modello positivo di convivenza che può essere un esempio per il mondo intero». Anche per l’Europa che sulla gestione dei profughi ha perso la bussola. Padre Mounir Khairallah (nella foto con il rettore), vescovo della diocesi di Batroun, 50 Km a nord di Beirut, e segretario del Sinodo patriarcale maronita, lo spiega a partire dai numeri: «Con poco più di 4 milioni di abitanti, la mia terra ospita quasi 1,6 milioni di profughi siriani, più di un terzo della popolazione. A questi si aggiungono circa 500.000 palestinesi e un minore gruppo di iracheni».

In questi giorni a Milano per alcune visite istituzionali, tra cui un incontro con il rettore dell’Università Cattolica Franco Anelli, padre Mounir sa bene cosa significhi affrontare un’emergenza umanitaria, come quella che sta attraversando l’Europa.

Come influisce l’enorme afflusso di profughi sulla vostra vita quotidiana in Libano? «È un’emergenza che incide dal punto di vista sociale, per lo squilibrio della popolazione, economico, perché il paese era già in crisi, ma anche politico e confessionale. Nonostante tutto continuiamo a essere accoglienti e a dare un minimo di dignità a ciascuna famiglia di profughi. Basti pensare che il Libano è composto da un mosaico di 18 comunità diverse, ciascuna delle quali è riconosciuta per la sua tradizione e la sua cultura. Quelle stesse comunità che col tempo hanno contribuito a trasformare il Paese in una repubblica democratica, libera e indipendente».

Vi sentite soli nella gestione di questo fenomeno? «La Siria ha sempre considerato il Libano un suo territorio e non ne ha mai riconosciuto l’indipendenza. Dal punto di vista dello stato libanese i profughi siriani non sono regolati né controllati. Entrano ed escono dal nostro Paese come vogliono. Inoltre non pagano tasse, non hanno nessun tipo di assicurazione e per questo motivo il loro lavoro ha un costo molto basso sul mercato facendo concorrenza a quello dei libanesi, con conseguenze sull’intero tessuto economico-sociale. Gli uffici delle Nazioni Unite nel Libano (UNRWA) avevano promesso aiuti per i rifugiati siriani di tre miliardi di dollari, ma ne sono arrivati solo 230 milioni».

Ci sono anche tanti bambini orfani e abbandonati tra i profughi. «Sono tutti accolti nelle nostre scuole pubbliche. Nel paese ci sono 400.000 alunni siriani e 280.000 libanesi. Nella nostra diocesi i bambini siriani sono il 45%. A Natale abbiamo lanciato una campagna per raccogliere fondi a sostegno delle scuole e delle famiglie più povere. Consideriamo i siriani gente scacciata, a cui è stato negata la possibilità di vivere una vita degna. Noi libanesi siamo fatti così, è un diritto dell’uomo vivere nella libertà».

Durante il conflitto tra Hezbollah e Israele avete vissuto una situazione simile. «L’episodio del 2006 è uno fra i tanti della guerra con Israele. Un milione di rifugiati del sud sono stati accolti al nord, soprattutto da noi cristiani. La grande maggioranza dei profughi era sciita. Quando sono arrivati nelle nostre case, scuole e parrocchie c’è stata l’occasione di conoscerci meglio. E da allora una nuova amicizia è nata tra di noi. Così, abbiamo scoperto di avere tantissimi valori in comune, soprattutto quello dell’ospitalità, della dignità, del rispetto per l’altro, della terra a cui siamo tutti legatissimi. Loro hanno scoperto i valori cristiani della carità e del perdono, che hanno cercato di mantenere vivi una volta tornati a casa».

Con l’avvento dei jihadisti di al-Baghdadi molte cose sono cambiate. «L’Isis è un affronto non solo per i cristiani ma anche e soprattutto per i musulmani. È un pericolo per tutte le nostre società, popoli, religioni e culture. È un fondamentalismo cieco che anche l’Islam rifiuta. Altro non è se non una reazione alla politica dell’Occidente in Medioriente: quella delle grandi potenze che guardano solo ai propri interessi economici, senza occuparsi dei popoli che vivono in queste terre».

Vi sentite minacciati dalle violenze dell’Isis? «Noi siamo tranquilli. Non abbiamo paura perché siamo convinti della nostra storia e della nostra lotta per tanti secoli a fianco dei nostri fratelli musulmani. Siamo convinti che potremo fondare Paesi liberi, democratici e rispettosi della diversità all’interno dell’unità nazionale, come è già successo in passato. Possiamo farlo, non abbiamo paura di nessuna di queste facce del terrorismo e della violenza».

In molti paesi occidentali c’è la tendenza ad accomunare religione islamica e terrorismo. «Se l’Occidente ha sostenuto questo fondamentalismo per 40 anni e adesso comincia a pagarne il prezzo non deve scaricare le colpe sul Medioriente, su cui si vorrebbe applicare un nuovo progetto di spartizione come quello successivo alla Prima Guerra Mondiale. D’altra parte non accettiamo neanche la posizione di chi identifica l’Islam come una religione che non sa cos’è la convivialità e il rispetto dell’altro».

Un pensiero in linea con l’azione di Papa Francesco. «Il Santo Padre considera il Libano un modello possibile per tutti i paesi del mondo, anche dove ci sono conflitti. Ho molta stima di lui e sono convinto di una cosa: come Giovanni Paolo II ha fatto cadere il comunismo, Francesco farà cambiare il capitalismo. Bisogna trovare una via di mezzo per rispettare i diritti dell’uomo e le diversità culturali economiche e storiche di tutti i popoli in un mondo che possa avere più giustizia e uno sguardo per i poveri. Una missione che Francesco porta avanti dall’inizio del suo pontificato e lotterà fino in fondo per rendere possibile».