di Lauretta Maganzani *

Una questione antica che andava governata. Esattamente come oggi. Ma come la gestirono gli antichi romani? A seguito dell’ingente afflusso a Roma di stranieri attratti dagli agi della capitale, dopo un primo periodo di apertura verso i cosiddetti peregrini durato all’incirca fino alla I guerra punica, la città tentò di arginare il fenomeno, per esempio facendo tornare i migranti nei loro paesi d’origine o imponendo di lasciarvi almeno i loro figli, in modo che i popoli amici fossero ancora in grado di fornire giovani soldati all’esercito romano.

Eppure le origini stesse dell’Urbe erano state segnate da una politica di grande apertura verso gli stranieri: essa era sorta attorno a un luogo d’incontro di genti diverse, cioè nei pressi dell’isola Tiberina, importante guado del Tevere su cui insistevano molteplici assi di scambio. Le fonti antiche e gli stessi scavi archeologici rivelano, inoltre, la disomogeneità della popolazione sui sette colli ma anche il loro progressivo amalgamarsi in un gruppo unitario retto da un unico diritto. Re di Roma poteva essere anche uno straniero trasferitosi in città: come per esempio il sabino Numa Pompilio, successore di Romolo e, secondo le fonti, fondatore delle istituzioni religiose di Roma, a cui viene attribuita da Livio l’introduzione dei sacra peregrina come segno forte di apertura alla coesistenza nella città di culti romani e stranieri. Il fenomeno di Roma “città aperta” diviene ancora più evidente con il passaggio alla monarchia etrusca, anche perché i ceti dirigenti colgono l’importanza della crescita della popolazione residente, sia essa formata da nativi della città o da “migranti”, per rimpolpare le file dell’esercito.

Peraltro nell’antichità romana la cittadinanza non è collegata all’appartenenza a un perimetro territoriale, ma a una comunità di cittadini retta dallo stesso diritto (iuris societas civium, scriverà Cicerone).

E tuttavia le guerre puniche e l’espansione romana nel Mediterraneo avrebbero accresciuto, oltre agli agi della capitale, anche il numero di stranieri desiderosi di raggiungerla e soggiornarvi. Ma anche gli schiavi giungevano in massa a seguito delle numerose conquiste belliche di Roma, che in pochi decenni giunse a dominare tutti i paesi intorno al Mediterraneo. Così, in breve tempo, l’afflusso di immigrati e schiavi, spesso portatori di valori e credenze lontanissimi da quelli dei Romani, trasformò la città facendole perdere le caratteristiche originarie.

In tale contesto, divenne vitale controllare i flussi migratori e Roma divenne quindi una città nella quale furono potenziati i meccanismi di registrazione, che permettevano di tenere traccia dei movimenti di popolazione. Se infatti l’emigrazione non era perseguita di per sé, si temevano i nullafacenti pronti a incrementare il sottobosco della delinquenza e della prostituzione.

Ciò divenne urgente dopo la seconda fase della guerra annibalica, quando la “politica dell’immigrazione” romana subì una svolta radicale. Infatti l’immigrazione a Roma era divenuta ormai tale da determinare lo spopolamento delle colonie con la conseguente impossibilità delle stesse di inviare a Roma i contingenti militari richiesti: da qui l’emanazione di una serie di provvedimenti d’espulsione nel 187 a.C., nel 177, nel 126, nel 122, nel 95, nel 65 a.C.: in quest’ultima occasione una lex Papia cd. de peregrinis dispose addirittura l’istituzione di un tribunale straordinario contro gli usurpatori della cittadinanza.

Ma il problema “stranieri” scoppiò nell’ultimo secolo della repubblica, dilaniato dalla grande questione della cittadinanza romana richiesta da tutti i popoli latini e italici: ne derivò addirittura una guerra, il cosiddetto bellum sociale, che fu la più dura che Roma dovette affrontare perché combattuta contro i suoi stessi commilitoni. L’unica possibilità di vittoria per l’Urbe fu allora la concessione a latini e peregrini dell’agognata civitas, a cui, tuttavia, non seguì la piena equiparazione dei nuovi cives nei diritti politici.

Dopo significativi ampliamenti della cittadinanza ad opera di Cesare (ad es. a tutti i Transpadani) e successive restrizioni da parte di Augusto e i successivi imperatori, la constitutio Antoniniana del 212 d.C. porterà alla parificazione dello status civitatis di tutti gli abitanti dell’impero romano, con conseguente parificazione fra cives e peregrini.

* docente di Diritto romano, facoltà di Giurisprudenza, campus di Milano