«La vera sfida che abbiamo davanti è quella di ricostruire. Sono importanti le misure per affrontare questo momento difficile ma dobbiamo pensare a quando rialzeremo le saracinesche». Per il professor Michele Faioli, docente di Diritto del lavoro alla facoltà di Economia dell’Università Cattolica bisogna scegliere con convinzione la fatica del pensiero lungo per superare lo tsunami generato dal Coronavirus. «I 750 miliardi messi in campo dalla Bce sono una somma formidabile, che guarda lontano. Sta a tutti noi interagire con questo profondo cambiamento. Il diritto del lavoro, i sindacati e le parti sociali vogliono rimanere ancorati a categorie anni ’80 o concentrarsi su nuovi modelli?».

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Che cosa dobbiamo attenderci dopo questa emergenza? «Tra 90 giorni il 50% delle imprese non ci sarà più e con questo mi riferisco a ogni settore: manifattura, terziario, alimentare, chimici… Nessuno di noi sa cosa ci sarà dopo, perché il sostegno al reddito non garantisce il mercato, ma solo il reddito dei lavoratori. Come sarà il mercato del lavoro non lo sappiamo. Chi era già sul precipizio sarà spazzato via e il sistema imprenditoriale non sarà più lo stesso. Una parte dell’economia, come il terziario e il turismo, ci metterà tanto a rialzarsi: non è facile riprendere dopo la chiusura di alberghi e ristoranti, cambiano anche le abitudini dei clienti: chi di noi sta programmando le vacanze? A chi verrà in mente di andare in un ristorante affollato? Si trasformeranno, infine, luoghi e spazi di lavoro».

Come prepararsi a questo nuovo mercato del lavoro? «Un ruolo importante lo gioca l’Europa, che deve fare di più. Senza aspettarsi grandi riforme che richiederebbero anni, in base ai Trattati attuali bisogna incidere su politiche per la concorrenza, politiche economiche e politiche sociali, oltre che su politiche per la sicurezza sul lavoro. Sono spazi enormi che abbiamo davanti. Certo, bisogna lavorare tutti coesi. C’è una spinta fortissima al coordinamento europeo e l’intervento della Banca centrale europea ne è un esempio, anche se la decisione del quantitative easing da 750 miliardi è stata presa a maggioranza e non all’unanimità. Ciò che conta è che questa valanga di soldi sia rivolta alla ricostruzione. Dobbiamo capire quale sarà l’economia dei prossimi 10-20 anni e quale il diritto del lavoro a essa collegato». 

Cosa sta facendo il nostro Paese? «Il protocollo sulla sicurezza sul lavoro del 14 marzo, per fare un esempio, è importantissimo, però è dentro una logica minimale. Per proteggere i lavoro serve più tecnologia, non meno. Abbiamo bisogno di più strumentazione fisica che si abbini al corpo dell’operaio e di svolgere attività anche in situazioni come questa. Dobbiamo cancellare la tecnofobia. Se riusciamo a creare uno scudo basato sulla tecnologia, saremo più forti».

Quali sono le misure chiave che ha adottato il Governo? «Sono di tre tipi. La più importante riguarda il sostegno al reddito. L’esecutivo dà la possibilità di accedere agli strumenti esistenti come la cassa integrazione e i fondi di solidarietà con accesso facilitato. La strada seguita è quella della de-burocratizzazione deli strumenti. Tra questi figura anche la cosiddetta cassa in deroga, riservata ai datori di lavoro che non possono accedere alla cassa normale o hanno esaurito tutti i benefici».

Il secondo tipo d’intervento? «La seconda sezione è relativa alla conciliazione vita/lavoro, per chi ha problema di cura dei bambini, degli ammalati e delle persone più vulnerabili in genere. Sono introdotte tutele ulteriori, per esempio sono estesi la legge 104 e i congedi. Si rafforza anche lo strumento del lavoro agile per chi può farlo».

Qual è la terza misura? «La terza seszione, che mi pare d’interesse estremo e che molti hanno sottovalutato, è che viene introdotto un premio retributivo per coloro che stanno in fabbrica. Una somma piccola che viene defiscalizzata al datore di lavoro ed è un modo per premiare coloro che sono costretti a stare sul posto di lavoro».

Questo momento sarà una scuola per il futuro? «Lo deve essere sia per non farci trovare impreparati rispetto ad altre emergenze come questa, sia per affrontare crisi di altra natura».