In Iraq l’azione umanitaria sotto assedio, come a rischio è anche l’incolumità di chi per professione vuole raccontare cosa succede nel paese mediorientale in cui regna la paura e in cui il clima politico frammentato rende difficile ottenere risultati concreti per la popolazione civile. Come hanno spiegato Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni Internazionali, Alessandro Vitale e Riccardo Redaelli, docenti di Geopolitica, introducendo il convegno “Il Caso Iraq – Azione umanitaria sotto assedio”, che lo scorso 27 novembre ha portato nella Cripta dell’Aula Magna esponenti di Organizzazioni non governativa (Ong) e giornalisti. Un confronto per discutere della difficoltà di operare nei conflitti e delle possibili soluzioni.

Gli operatori umanitari devono confrontarsi con gli ostacoli posti dal governo locale, con la diffidenza della gente locale, che spesso percepisce le Ong come organi politicizzati, e con l’impegno di una ricostruzione che non deve e non può essere semplicemente l’imposizione del modello di vita occidentale. Medici Senza Frontiere, racconta il responsabile dei progetti in Iraq Loris de Filippi, è riuscita a operare stabilmente in quello Stato solo a partire dal 2008; prima, ragioni di sicurezza hanno imposto che l’organizzazione si insediasse in Paesi limitrofi, come la Giordania, per curare i malati trasportandoli lontano dalla zona dei conflitti con l’elicottero. «Ora che Msf è presente in Iraq, a Bassora e Baghdad, - racconta de Filippi, - la popolazione civile ci ha accolti con favore, lieta della presenza di occidentali che, per una volta, non sono lì per sfruttarli o attaccarli. Oltretutto, lo facciamo gratis». De Filippi sottolinea inoltre come sia centrale l’aiuto della popolazione civile locale, che spesso sceglie di collaborare alle attività di Msf, diventando segno di una ricostruzione che parte dalle persone. È quello che si augura anche Ismaeel Dawood dell’organizzazione non governativa “Un ponte per…” presente in Iraq fin dal 1991. Secondo Dawood, però, lo sviluppo della società civile irachena incontra ostacoli non da poco. La cooperazione tra Ong e civili locali, infatti, è osteggiata dallo stesso governo iracheno, che controlla le attività e le fonti di finanziamento delle organizzazioni, e ne limita le collaborazioni con l’estero. Inoltre, soprattutto negli anni del dopo Saddam, per la popolazione accedere ad acqua, luce, gas, alla sanità e a un’istruzione di qualità è sempre più difficile, e per di più ostacolato dalla scarsa volontà del governo di investire nello sviluppo. Solo il 27% del budget dello Stato, infatti, è destinato a interventi per lo sviluppo, mentre il 95% dell’economia si regge esclusivamente sullo sfruttamento dei pozzi di petrolio, nella quasi totale assenza di imprese private.

In queste condizioni, gli operatori stranieri si trovano in difficoltà, e ciò vale anche per i giornalisti, chiamati a documentare una realtà su cui non sempre possono dire tutto. È il fotoreporter Francesco Zizola (foto a lato), a spiegarlo: «Ci sono solo due modi per arrivare sul luogo di un conflitto: o essere “embedded” (cioè a seguito di un esercito amico), e quindi dover sottoporre le notizie prodotte al vaglio dei militari, oppure essere autorizzati dal governo locale, e quindi subire la censura dello Stato». Entrambi inaccettabili per un giornalista scrupoloso, eppure solo così si può documentare un conflitto, secondo Roberto Buongiorni, inviato in Afghanistan del Sole 24 Ore, quando è la stessa testata a non voler correre rischi, o quando budget e tempi redazionali impongono di confezionare un servizio nel più breve tempo possibile. Una terza via sarebbe possibile: appoggiarsi ai media locali, o alle Ong che operano sui territori flagellati dalla guerra. Tuttavia, la disavventura di Daniele Mastrogiacomo, giornalista di Repubblica rapito in Afghanistan dai talebani insieme al suo interprete, poi ucciso, non lascia ben sperare in questo senso. Per ora.