Il prossimo 3 novembre gli americani saranno chiamati al voto per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Abbiamo chiesto ad alcuni giornalisti di varie testate, particolarmente esperti di politica americana e molti dei quali alumni dell’Università Cattolica, di aiutarci a capire dove stanno andando gli Stati Uniti e come affrontano uno dei passaggi più delicati della loro storia. Cominciamo con questo articolo il nostro speciale


di Giacomo Cozzaglio

La vera forza della campagna dei Democratici in questo momento è proprio Trump. Non c’è miglior collante nelle file del partito dell’asinello che la presidenza di The Donald e la svolta a destra dei Repubblicani. Parola di Martino Mazzonis, giornalista per diverse testate nazionali e curatore del progetto della Treccani AtlanteUsa2020. Con un esperto di Stati Uniti come lui, che da 15 anni segue le vicende americane, proviamo a capire cosa potrebbe portare a un ribaltamento nell’inquilino della Casa Bianca.

Rispetto al 2016 è cambiato qualcosa nella strategia elettorale del Partito Democratico? «In parte sì, in parte no. Ci sono tre aspetti: il primo riguarda la geografia elettorale, ovvero dove andare a cercare i voti, in quali stati investire e quali dare per persi. L’enorme errore di Hillary Clinton nel 2016 fu di sottovalutare l’importanza di alcuni Stati di quello che chiamiamo “Midwest” o “Rust Belt” (Wisconsin, Michigan e Pennsylvania) considerati un “Blue Wall”, cioè una cintura democratica tra gli Stati più in bilico come Iowa e Ohio. Per 78mila voti gli stati del “Rust Belt” diedero la vittoria a Trump. Ora i democratici stanno investendo tantissimo in questi stati: Biden è spessissimo in Pennsylvania, è stato in Michigan e Wisconsin e la cosa sembra pagare». 

Il secondo aspetto? «È la strategia in parte centrista come quella del 2016: voltare pagina e tornare a una politica civile dopo quattro anni di Trump. Questa è una contrapposizione netta: “Noi siamo quelli civili”, mentre dall’altra parte c’è Trump. Questo aspetto si combina anche con alcuni messaggi più radicali. Infatti, per due primarie consecutive Bernie Sanders ha preso una marea di voti e oltre ai suoi vanno contati anche quelli di Elizabeth Warren e di altri candidati progressisti. C’è una base di democratici che si è spostata a sinistra e un movimento Black Lives Matter che chiede delle riforme da anni. Biden deve agli afroamericani la vittoria in South Carolina per mezzo della quale ha potuto diventare il candidato dei democratici alla presidenza».

Ma non è tutto… «Terzo e ultimo elemento è la scelta di Kamala Harris. Mentre Hillary Clinton scelse Tim Kaine (un maschio uguale a lei, moderato e bianco), qui invece siamo di fronte a una donna nera, asiatica, divorziata, un personaggio che somiglia di più all’America di quanto non somigliassero Clinton e Kaine o oggi Trump e Pence».

Joe Biden e Kamala Harris sono due personalità molto diverse. Quale contributo possono dare per unire le varie anime dei Democratici? «Credo che a unire le anime dei Democratici siano Donald Trump e una svolta a destra dei Repubblicani che si è verificata negli ultimi anni. Ma a unire i democratici sono anche i pericoli rappresentati da Donald Trump per la tenuta del sistema democratico americano. Tra gli altri Bernie Sanders sta facendo una campagna dinamica per Joe Biden, cosa che non fece per Hillary Clinton nel 2016: ho visto dei comizi di Sanders per Clinton, ma non era un impegno costante. Perfino un personaggio della sinistra radicale come Noam Chomsky ha invitato a votare Biden».

Quindi il ticket Biden-Harris non porta un valore aggiunto? «In questo momento l’unione dei Democratici la fanno i Repubblicani. Però Joe Biden e Kamala Harris in parte si differenziano: Joe Biden è la vecchia guardia democratica, bianco, vive in Pennsylvania, uno che sa parlare dritto negli occhi alla classe operaia bianca che in parte aveva votato Trump, conosce quella gente e ne conosce i suoi “mal di pancia”. Kamala Harris è giovane, spontanea, californiana, una che ce l’ha fatta da sola, è un altro tipo di storia americana, ma in grado di parlare anche ad altri.

Che cos’hanno da dire i due? «Entrambi hanno un problema: sono una coppia che si somiglia per la collocazione centrista-moderata. Kamala Harris è un po’ più di sinistra, ma solo perché viene dalla California. Essere una centrista in California non è come esserlo altrove: su alcuni temi come la razza e l’immigrazione si è per forza più radicali perché in California contano di più che altrove. E questo è una forza per Kamala Harris».

Punti di debolezza? «Insieme i due però centristi, mentre il partito in questo momento ha molte facce, ma non un vero leader: Biden non è la vera guida di questo partito. È il punto di equilibrio e l’essere stato vicepresidente di Barack Obama gli dà un enorme prestigio. Però in un partito che alle primarie ha mostrato tanti volti nuovi e capaci, la capacità di tenerlo unito ce l’hanno proprio queste nuove generazioni. Non a caso Biden dice: “Sono un punto di passaggio, passerò lo scettro alla nuova generazione di democratici”. Questo è un limite della coppia che però, a mio parere, viene attutito dal fatto che in questi mesi sono molte le personalità che li stanno sostenendo: Pete Buttigieg, Elizabeth Warren, Bernie Sanders…».

Lei ha sottolineato come in questo momento Bernie Sanders stia mostrando un impegno maggiore rispetto al 2016. I messaggi di Sanders e Warren hanno sempre fatto presa su un elettorato giovanile. Questo elettorato come si porrà di fronte alla scelta di un candidato come Joe Biden? «Portare alle urne i giovani è sempre una cosa complicata negli Stati Uniti ed è il motivo per cui i Democratici hanno la capacità di contendere la Casa Bianca: quel segmento di elettorato giovanile che si reca ai seggi vota democratico al 60-70% da tre elezioni a questa parte. Se i giovani andassero a votare in massa peserebbero quanto gli anziani che a loro volta propendono per i Repubblicani ma non nelle stesse percentuali di quanto non facciano i giovani per i Democratici. Questo è un problema reale, soprattutto quest’anno dove a causa del Coronavirus tutto il lavoro di mobilitazione nei campus e strada per strada è mancato. Si pensi ad una figura come Ocasio Cortez che nei campus è in grado di far registrare al voto moltissime persone».

Quali sono i temi per smuovere questo tipo di elettorato? «Come la paura di altri quattro anni di Trump unisce i Democratici, anche il tema del cambiamento climatico è fortissimo per i giovani. Trump ha abrogato un numero enorme di leggi relative all’ambiente e non ha fatto nulla per combattere il cambiamento climatico, in un anno in cui la California è andata a fuoco e il numero di eventi atmosferici particolarmente drammatici (come i tornado) è cresciuto notevolmente. Credo che i giovani andranno a votare: nel 2018 ne abbiamo avuto un esempio, certo c’erano altre persone e non solo Ocasio Cortez, ma dopo due anni di Trump al potere sono andati alle urne in numero molto alto per un’elezione di medio termine. Nonostante Biden non sia il candidato perfetto per mobilitare i giovani, il fatto che ci siano il Black Lives Matter e il cambiamento climatico contribuirà a una loro maggiore partecipazione».

Il tema dei cambiamenti climatici è molto sentito dai democratici. Ma Biden ha avuto un atteggiamento ambiguo: insieme all’attenzione all’ambiente vuole rintuzzare gli attacchi dei Repubblicani che paventano il rischio di perdere molti posti di lavoro se si perseguisse un’agenda ambientalista. È una posizione sostenibile per il suo elettorato? «Sicuramente è un compromesso. Ci sono però alcuni Stati che i Democratici devono assolutamente riconquistare: uno è la Pennsylvania, un altro possibile è l’Ohio. Sono tutte aree di miniere, di fracking. Il fracking, per esempio, è tra le poche novità che dal punto di vista economico hanno caratterizzato questi Stati rispetto ad altri che sono in relativa decadenza dal punto di vista industriale. Recarsi in quei luoghi e annunciare la chiusura di oleodotti e gasdotti non sarebbe una buona mossa elettorale». 

Cosa andrebbe fatto? «Biden ha mantenuto una posizione un po’ ambigua sul fracking, ma seria e interessante su cosa fare in positivo: ritornare agli Accordi di Parigi, ripristinare i limiti alle emissioni delle auto (regole già emanate dall’amministrazione Obama). Ma ha, inoltre, assunto alcuni elementi del piano Green New Deal per investire in infrastrutture compatibili dal punto di vista ambientale e che contribuiscano anche a creare lavoro. Come messaggio concreto, è rassicurante; inoltre il piano di Biden per le infrastrutture “Build Back Better” contiene molte idee del Green New Deal che si rifà ai gruppi vicini a Ocasio Cortez».

Per i Dem unirsi solo in chiave anti-Donald Trump non rischia di essere una bolla che potrebbe indebolire la loro forza elettorale o dimostrarsi un collante temporaneo che in caso di vittoria elettorale di Biden verrebbe meno, rendendone complicata la presidenza? «Un’eventuale presidenza Biden sarebbe comunque complicata: i Repubblicani farebbero ostruzionismo su tutto (così come fecero con Obama) e in più avrebbero dalla loro una super maggioranza alla Corte Suprema che ha potere in materia di legiferazione del Congresso e sugli ordini esecutivi del presidente. Un altro aspetto è che i Democratici sono una coalizione composita. I Repubblicani non prendono più voti dei Democratici dal 1998 (tranne nel 2004): e hanno sempre perso le elezioni dal punto di vista proporzionale, ma le hanno comunque vinte tre volte. Questo a causa del sistema dei grandi elettori che costringe i Democratici a vincere in Stati con un elettorato assai eterogeneo, al contrario dei Repubblicani che possono contare su Stati con un elettorato più omogeneo. Il fatto che Biden sia il candidato presidente è un vantaggio perché conosce profondamente i meccanismi del Congresso (è stato senatore per 27 anni). In un’eventuale presidenza Biden sarà determinante avere come alleata una parte di America che preme per rinnovare, altrimenti il rischio è una paralisi dovuta sia alla scarsa iniziativa che all’ostruzionismo dei Repubblicani».


Prima di una serie di interviste con giornalisti esperti di politica americana in vista delle Presidenziali Usa 2020