Il prossimo 3 novembre gli americani saranno chiamati al voto per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Abbiamo chiesto ad alcuni giornalisti di varie testate, particolarmente esperti di politica americana e molti dei quali alumni dell’Università Cattolica, di aiutarci a capire dove stanno andando gli Stati Uniti e come affrontano uno dei passaggi più delicati della loro storia. Il nostro speciale


di Giacomo Cozzaglio *

Nelle consultazioni elettorali è sempre difficile prevedere i comportamenti dei votanti. Lo è ancora di più per i giovani, che potrebbero risultare decisivi per la corsa alla Casa Bianca. Pochi, meglio di Gaja Bettoli, giornalista italoamericana e autrice del libro “Shake-Up America. Capire le elezioni 2020 come un americano”, possono spiegarcelo meglio in Italia.

«Il fatto che 47 milioni di americani abbiano già votato induce a pensare a un’affluenza potenzialmente elevata» spiega la reporter. «Data l’alta incidenza del voto per posta che si registra in questi giorni, potrebbe trattarsi di persone che tendenzialmente votano democratico, vista la tendenza di questo partito ad appoggiarne l’utilizzo. La cosa interessante è che i giovani in America sono chiamati “first-time voters”: molti di questi, infatti, non avevano potuto votare nel 2016, di conseguenza il loro voto rimane un’incognita. Barack Obama nel discorso di sostegno a Biden si è rivolto proprio a chi vota per la prima volta. Invece nel dibattito tenutosi a Nashville (Tennesee) nessuno dei due candidati presidenti ha scelto questo target. Trump, addirittura, si è rivolto esclusivamente a coloro che hanno votato per lui (anziani, donne delle periferie…)».

C’è qualcosa che accomuna l’elettorato giovanile? «Ci sono ovviamente differenze e dipendono molto anche dallo stato di provenienza: un ragazzo cresciuto in Georgia non è uguale a un altro nato a Boston e con laurea ad Harvard. Tuttavia le proteste contro il razzismo, la crisi economica e il bilancio pesante di vittime della pandemia sono fattori che hanno coinvolto tutta l’America e hanno mobilitato l’elettorato giovanile, tutte persone che desiderano lasciare un contributo alla società per cambiarla».

Quindi il coinvolgimento dei giovani dipende più dai temi della campagna elettorale piuttosto che dai candidati alla Casa Bianca? «È difficile affermarlo con certezza. Senza dubbio gli Stati Uniti sono in uno stato di crisi tale, per cui è verosimile che un giovane alla sua prima opportunità di votare si rechi alle urne. Concordo sul fatto che non siano solo i candidati il motivo di questa partecipazione. Biden non ha molto seguito tra i giovani sia perché ha 77 anni sia in quanto membro dell’establishment. Un profilo quindi non così apprezzabile come quello di Alexandria Ocasio Cortez, giovane rappresentante al Congresso per il partito Democratico e vicina alle idee di Bernie Sanders. Tuttavia un momento come quello attuale, frutto di anni di politiche inefficaci da parte di entrambi i partiti, ha creato numerosi malesseri nei rispettivi elettorati». 

Questo malessere che conseguenze può avere per i Democratici? «Il partito Democratico storicamente rappresentava la classe operaia, i cosiddetti “working men”. Negli ultimi 30 anni però il potere d’acquisto di questa parte della popolazione è diminuito notevolmente: di conseguenza queste persone si sono ritrovate con meno diritti (anche a causa dello scarso potere dei sindacati negli Stati Uniti), mentre altri segmenti della società sono ascesi sulla scala sociale. Parallelamente i Democratici hanno iniziato a sposare cause come il clima e la possibile abolizione del fracking come sostenuto da Joe Biden e dalla sua vice Kamala Harris in diverse occasioni. Questa tema è strategico in alcuni “swing states” come la Pennsylvania, dove il risultato finale è sempre incerto, pertanto una possibile proposta di abolizione alienerebbe una parte importante di elettorato teoricamente rappresentata dai Democratici e fondamentale per la vittoria».

Quindi, per quanto sia in testa nei sondaggi, il partito di Biden ha i propri problemi da risolvere. «All’interno del partito Democratico ci sono due situazioni critiche. Prima: l’adesione a tematiche che non incontrano le esigenze della classe lavoratrice. Seconda: la mancanza di ricambio generazionale interno. Un dato che non riguarda solo Joe Biden, ma anche Nancy Pelosi (speaker della Camera dei Deputati). Si tratta di figure da anni impegnate in politica e che reggono le redini del potere all’interno del partito. Quindi un ricambio generazionale sarà necessario se non inevitabile: in alcuni discorsi lo stesso Biden ha sottolineato il suo ruolo di “old man”, l’anziano saggio che agevola la transizione. Altro punto fondamentale per il partito Democratico è l’appoggio della comunità nera».

Soprattutto al tempo di “Black Lives Matter”… «Il voto della comunità nera è decisivo tanto per i Democratici quanto per i Repubblicani. Lo stesso presidente Trump in alcuni suoi tweet si rivolge ai neri. Ci sono inoltre degli indicatori che mostrano come una parte di loro voti Repubblicano. Nel 1965 Lyndon B. Johnson promulgò il Voting Right Act con cui fu concesso il diritto di voto ai neri, ma da allora non è cambiato molto: molti membri della comunità nera si sono sentiti ignorati dal partito Democratico, che tendenzialmente si rivolge loro solo durante le elezioni. Nonostante certe uscite di Trump, una parte di loro si allinea con alcune politiche del presidente come l’immigrazione: in questo caso i neri temono che gli immigrati ispanici illegali provenienti dal Messico e dagli altri stati del Sud America possano rubare loro lavoro (solitamente manuale e non specializzato)».

A partire da qui, possiamo dire che a queste elezioni è difficile parlare di elettorati realmente fidelizzati a uno dei due partiti? «Prima di tutto la comunità nera negli Stati Uniti rappresenta il 13% della popolazione. Poi ricordiamo che a ogni elezione americana il punto centrale è quante persone vanno a votare. Il motivo di questi dibattiti non è solo quello di aggiudicarsi i voti degli indecisi, ma soprattutto quello di spronare la propria base a recarsi alle urne minacciando la vittoria dell’avversario. Gli indecisi quindi non rientrano negli scopi del dibattito, soprattutto se consideriamo che a pochi giorni da un voto così polarizzato gli elettori hanno già probabilmente deciso la propria preferenza. L’obiettivo finale di Trump e Biden è pertanto la mobilitazione».

Tornando ai giovani, Biden sembra non avere appeal su di loro. La scelta di una candidata alla vicepresidenza come Kamala Harris può essere stata una mossa per rimediare a questo handicap? «Da un certo punto di vista, direi di sì. Trump invece ha riproposto Mike Pence che era già il suo vice. Il prossimo 20 gennaio (data dell’insediamento) Trump avrà 74 anni mentre Biden 78: non si è mai avuto un presidente così anziano. Di conseguenza le possibilità che il vice subentri alle funzioni del presidente qualora questi non fosse in grado di adempiere i propri doveri non sono poche».

Anche all’interno del partito Repubblicano non mancano divisioni, innescate o meno da una figura controversa come quella di Donald Trump? «La situazione in cui si trova il Paese viene spesso attribuita esclusivamente a Trump. Ma non è così. Oltre alla questione razziale, ci sono altre criticità che scontano un ritardo di anni e le cui responsabilità sono da attribuire a entrambi i partiti. 

Torniamo al partito dell’elefantino… «I Repubblicani geograficamente hanno sfruttato il Voting Right Act del 1965 con cui si sanciva il diritto al voto dei neri, per far leva sulla protesta dell’elettorato bianco degli Stati del Sud, che tradizionalmente votava Democratico (dalla presidenza Nixon invece ha spesso votato Repubblicano). Negli ultimi anni però è cambiata molto la demografia del Paese: l’elettorato bianco è molto diminuito in percentuale a vantaggio di ispanici, asiatici e afroamericani, un dato che ha costretto i Repubblicani ad ampliare il proprio potenziale bacino di voti. Per tale motivo nel 2016 molti di loro bollarono la decisione di Trump di costruire un muro al confine messicano come una “vittoria di Pirro”, perché avrebbe alienato nel lungo periodo una parte della popolazione in costante aumento. Tuttavia i Repubblicani critici nei confronti di Trump (tra cui l’ex presidente Bush) rappresentano solo l’establishment e, quindi, sono inadatti a influenzare un nuovo bacino di elettori».

Quindi possiamo dire che la fazione contraria a Trump dentro al partito Repubblicano è minoritaria ma viene amplificata dai media per la notorietà dei nomi? «Parzialmente. Questi personaggi vengono visti dalla base che sostiene Trump come dei traditori o semplici rappresentanti dell’establishment. Spesso si parla di Trump come di un businessman e di un outsider: in realtà negli anni ‘80 egli è stato un Repubblicano, poi è diventato un Democratico, successivamente un Riformista e infine è tornato tra i Repubblicani. In molte interviste ha inoltre dichiarato di avere posizioni simili a quelle dei Democratici su certe questioni. Ma in realtà Trump non segue fedelmente le linee di partito, mentre altri presidenti del passato (Ronald Reagan, Jimmy Carter) pur essendo outsider credevano fermamente all’ideologia del rispettivo partito di riferimento».


Quarta di una serie di interviste con giornalisti esperti di politica americana in vista delle Presidenziali Usa 2020