di Roberto Brambilla

Non da oggi l’università viene considerata soggetto centrale nei processi di innovazione e generazione del benessere umano. Già nel medioevo – periodo in cui nascono le prime istituzioni universitarie europee - finalità dell’Universitas studiorum era la cura di un pensiero organico e culturalmente avanzato, che potesse sostenere il progresso sociale, economico, artistico e militare all’interno delle città e delle primigenie forme di Stato.

Con gli obiettivi di Europa 2020 il ruolo dei sistemi di istruzione superiore si rafforza e diventa determinante nella strategia di promuovere il vecchio continente come “l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”, e di “realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. All’università, oggi, è riconosciuta una valenza cruciale: da un lato è vista come uno dei motori di questa auspicata crescita socio-economica attraverso l’innovazione e la ricerca, dall’altro si sta affermando come un importante ambito competitivo tra i Paesi, sia in quanto generatrice di capitale umano qualificato, sia perché i milioni di studenti universitari in tutto il mondo rappresentano in sé un settore di mercato ad alto potenziale.

Nel nuovo scenario competitivo globale, caratterizzato da sempre più veloci acquisizioni scientifiche e conseguenti applicazioni tecnologiche che talvolta sembrano incentivare il progresso a scapito della centralità della persona umana, anche l’università si trasforma e si trova ad affrontare problemi inediti, che sfidano la sua identità e la sua stessa missione. È possibile in questo scenario coniugare il perseguimento dei fini sociali ed economici – l’economia e la società della conoscenza – integrando la promozione e lo sviluppo della persona umana?

L'Università tra competizione globale e sviluppo della persona (Vita e Pensiero)Di questi e altri temi, legati alle politiche e alla governance dei sistemi di higher education, parla il bellissimo volume di Valentina Moderana, pedagogista e studiosa di sistemi educativi, pubblicato in questi giorni da Vita e Pensiero: L’università tra competizione globale e sviluppo della persona. Incontrarla è stata l’occasione per un dialogo a tutto campo sul ruolo e la funzione degli atenei, chiamati anch’essi a misurarsi in quello che è stato autorevolmente definito “un cambiamento d’epoca”.

Dottoressa Moderana, nell’introdursi al nuovo millennio i sistemi universitari nazionali sono sfidati a sostenere sempre più l’evolversi delle società e delle economie. Quali sono gli scenari e le tendenze che ha avuto modo di studiare nelle sue ricerche? «Da sempre i grandi cambiamenti socio-culturali hanno influenzato e rimodellato i ruoli e le funzioni delle università; in particolare negli ultimi vent'anni due importanti fenomeni globali - quali le tendenze demografiche e la globalizzazione dei mercati e della società - hanno trasformato l'ambiente in cui le università operano, imponendo adattamenti continui.
Per cogliere l'entità di questi effetti è interessante partire da un dato: oggi più di quattro milioni di studenti si spostano dal proprio Paese per intraprendere un percorso di studio. Il valore del capitale umano composto dagli studenti in mobilità è tale da indurre i governi nazionali a adottare vere e proprie strategie politiche e far sì che nessun ateneo possa trascurare l'importanza di aprirsi all'esterno e gli effetti di tale processo nell'organizzazione accademica. Per queste ragioni l'internazionalizzazione è considerata da molti studiosi l'attuale sfida dell'istruzione superiore. Accanto a questa si possono individuare ulteriori sfide e tendenze strettamente interconnesse tra loro».

Quali, per esempio? «Innanzitutto l'attenzione crescente per la qualità dell'istruzione: a fronte dell'ampliamento dell'offerta formativa legato alla crescente e diversificata richiesta e dell'emergere di nuovi soggetti erogatori - tra cui una quota sempre maggiore di imprese profit e non profit - vi è la necessità di salvaguardare i fruitori e trovare modalità per equiparare i percorsi formativi al fine di incentivare la mobilità transnazionale.
Al contempo il bisogno costante di aggiornamento e formazione professionale indotto dall'innovazione scientifica e tecnologica ha mutato i tempi e gli spazi della formazione nella necessità di integrarla con la carriera professionale degli individui dando origine a nuove forme di formazione a distanza il cui successo nel mercato è dimostrato dalla nascita delle università telematiche. Particolarmente interessante a riguardo è il fenomeno dei "Massive Open Online Courses - MOOC", corsi telematici gratuiti e aperti a un numero elevatissimo di utenti.
In modo analogo l'opportunità di accedere a una maggiore quantità di conoscenza, a costi sempre più ridotti, ha notevolmente incrementato la produzione e la diffusione di nuovi saperi a tal punto che l'OECD ha definito la "massificazione della ricerca" come uno dei principali trend degli anni a venire. Ciò ha innescato una forte pressione verso la pubblicazione scientifica, divenuta il parametro di valutazione della capacità e validità scientifica dei ricercatori e degli atenei, e un parametro-chiave nella competizione internazionale».

Tutto questo comporta necessariamente nuovi costi e una nuova organizzazione della spesa delle Università. Come possono risultare sostenibili i trend che lei descrive? «La crescente richiesta di risorse economiche prodotta dalla massificazione della formazione e della ricerca, unita alla riduzione dei finanziamenti statali a seguito della crisi economica, ha incrementato l'entità dei finanziamenti provenienti da fonti private, spingendo gli atenei ad aprirsi a nuove forme di business e introducendo inediti meccanismi competitivi e di quasi-mercato. È evidente come la complessità dei fenomeni citati sia tale da coinvolgere l'istruzione superiore a tutti i suoi livelli e richiedere scelte attente e lungimiranti in un delicato equilibrio tra competizione globale e sviluppo della persona umana».

A questo proposito, le trasformazioni in corso sembrano favorire l’affermarsi di un paradigma nuovo di università: da un modello humboldtiano, basato sulla natura pubblica dell’Università e sull’esclusiva relazione tra formazione e ricerca, si sta passando a una visione imprenditoriale, l’entrepreneurial university, centrata su un’organizzazione più autonoma e flessibile degli atenei e sull’ampliamento delle loro tradizionali funzioni alle attività di ricerca, consulenza e sviluppo, proprie delle imprese. Come incidono questi cambiamenti sulle politiche di higher education? «Nel contesto socio-economico attuale le università si trovano a operare in un ambiente sempre più globalizzato, in costante evoluzione, caratterizzato da una concorrenza crescente e dal delinearsi di nuovi bisogni ai quali devono fornire una risposta. In una logica sempre più orientata al mercato a partire dagli anni ‘80 si assiste a un'ondata di riforme dei sistemi europei guidate dai paradigmi del New Public Management che mirano ad avvicinare le modalità di produzione della ricerca e della didattica a quelle utilizzate dal mondo delle imprese.
Queste hanno ridefinito i tradizionali modelli di governance dell'istruzione superiore basati su un forte controllo statale verso nuove forme di autonomia e responsabilizzazione dell'università centrate su meccanismi di valutazione e premialità. Nella progressiva indipendenza delle università il ruolo dello stato non scompare ma tende a combinarsi con regole tipiche del mercato dando origine a modelli di coordinamento ibridi fondati sul binomio controllo centrale - autonomia degli istituti».

Come si regolano queste due funzioni? In Italia, per esempio, il dibattito è molto acceso… «Infatti. Lo Stato propende per la responsabilizzazione degli atenei assumendo una funzione di valutatore attraverso l'intervento di agenzie nazionali di valutazione e orientamento: la concessione dell'autonomia ai singoli istituti formativi comporta la valutazione delle loro performance e di conseguenza il loro controllo. Esemplificativo è il potere assunto negli ultimi anni in Italia dall'Anvur nell'orientare le priorità e i contenuti delle attività didattiche e di ricerca degli atenei. Concedendo maggiore libertà di impostazione e conduzione delle attività accademiche lo Stato, da una parte, permette alle università di essere più vicine ai bisogni dei fruitori e, dall'altra, attraverso il controllo dei risultati, stabilisce meccanismi di convergenza e uniformità che mirano a garantire la qualità delle prestazioni e la tutela del cittadino».

Tutto questo permette una reale autonomia? «In parte, sì. Al management accademico spetta la responsabilità di analizzare i processi, valutare i risultati e assumere decisioni volte a sviluppare strategie di cambiamento e ri-programmazione a medio-lungo termine nell'ambito di una visione sempre più orientata al futuro. A fronte di soluzioni standardizzate e omologanti, deve essere salvaguardata e valorizzata la complessità interna degli atenei che si sostanzia nell'eterogeneità delle funzioni assunte e delle attività proposte come riflesso delle peculiarità dei sistemi territoriali di riferimento».

Il suo libro affronta una lunga analisi delle azioni che i diversi organismi internazionali – dall’Unesco alla Banca mondiale, dal Consiglio d’Europa all’OECD – svolgono nel contribuire al delinearsi di un nuovo ruolo dei sistemi di istruzione superiore. In che modo queste azioni arrivano influire su vision, mission e governance dei nostri atenei? «Il dibattito scientifico sul ruolo delle organizzazioni internazionali nella sfera del policy making dell'istruzione è ancora molto aperto; tuttavia, pur nell'eterogeneità delle visioni e degli approcci teorici, tutti gli autori sono concordi nel ritenere tali organizzazioni come parte integrante della governance multilivello dell'istruzione superiore. Tale ruolo deve essere letto all'interno del processo di "hollowing out" dello Stato ovvero del progressivo svuotamento del potere dei governi nazionali su tre fronti: verso l'alto, a seguito dell'emergere di organismi internazionali sempre più influenti sui contesti nazionali; verso il basso, in ragione del rafforzamento dell'autonomia delle istituzioni subnazionali; verso l'esterno, attraverso la delega di competenze a istituzioni orizzontali con funzioni di regolamentazione in precise materie di policy subnazionali.
In tale scenario le organizzazioni internazionali hanno saputo colmare il bisogno dei policy makers di servirsi di evidenze empiriche e dati a supporto e avvaloramento dei processi decisionali e cogliere la tensione, che da sempre contraddistingue le policies della higher education, tra riforme statali e management degli istituti prestando attenzione alle diverse istanze portate da questi due poli. In particolare la comparazione dei sistemi di istruzione, le revisioni e valutazioni tra pari e gli studi comparativi internazionali su larga scala rappresentano uno strumento sempre più necessario per le politiche nazionali e le strategie degli atenei. Al contempo tali organismi si sono posti come forum intergovernativi in cui i rappresentanti dei governi nazionali e dei singoli atenei possono discutere ed elaborare strategie politiche su questioni di interesse comune».

Nella prassi quotidiana, concretamente, come avviene questa influenza? «Oltre ad aver accresciuto il numero di attività nel campo della higher education negli ultimi vent'anni queste organizzazioni hanno sviluppato un vero e proprio modus operandi fatto di metodi, procedure e tecniche specifiche per rapportarsi con i Paesi membri. Tale influsso non si basa sul potere legale ma su meccanismi di soft law che, nel settore dell'istruzione, acquisiscono una rilevanza particolare poiché intervengono su tre livelli: di governo, di settore e di organizzazione. Ciò significa che queste organizzazioni non agiscono solo sulle politiche nazionali ma anche sulla cultura di settore e sulle pratiche organizzative.
Sebbene il potere di influsso di queste organizzazioni sia ampiamente riconosciuto, in uno scenario politico globale, in cui il confine tra policy making internazionale, nazionale e degli istituti appare sempre più sfocato, risulta complesso individuare un legame diretto tra le policies promosse da questi organismi e le pratiche degli atenei».