Il prossimo 3 novembre gli americani saranno chiamati al voto per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Abbiamo chiesto ad alcuni giornalisti di varie testate, particolarmente esperti di politica americana e molti dei quali alumni dell’Università Cattolica, di aiutarci a capire dove stanno andando gli Stati Uniti e come affrontano uno dei passaggi più delicati della loro storia. Il nostro speciale


di Giacomo Cozzaglio

Emiliano Bos non è di certo il tipo di giornalista che sta solo a Manhattan a bersi un Martini. Corrispondente dagli Stati Uniti, dove vive e lavora da cinque anni per la Radio Televisione Svizzera (Rsi), è appena rientrato da un viaggio in camper attraverso la federazione, dall’Arizona al Wisconsin. Chi meglio di lui, alla vigilia delle Presidenziali del 3 novembre, può raccontare la complessità della società americana che si accinge a scegliere tra la riconferma di Trump e la presidenza di Biden?

A parte i luoghi sempre sotto le luci della ribalta internazionale, come New York, Chicago e Los Angeles, il giornalista della Tv Svizzera italiana ci racconta come si sta preparando al voto l’America profonda, quella parte del Paese spesso dimenticata dai media italiani.

«Innanzitutto ci sono tante Americhe tra le due coste» spiega Bos. «Zone come il Texas, l’Oklahoma e l’Arkansas sono solidamente e storicamente conservatrici, anche se il Texas è una realtà complessa per le differenze esistenti tra zone urbane e rurali. All’esterno delle grandi città il voto per Donald Trump è abbastanza sicuro, sebbene esso sia rivolto più ai valori dei Repubblicani che non al candidato stesso. Un voto da chi è convinto che serva meno Stato e meno aiuti pubblici». 

Posti che lei ha visitato… «Queste notizie sono frammenti di storie che ho raccolto nella contea di Roberts dove Trump ha raccolto il 95% dei consensi e dove i suoi sostenitori rappresentano ancora una schiacciante maggioranza. A Texarcana, piccola località al confine tra Texas e Arkansas, ho assistito a un rodeo: qui una signora proprietaria di una grossa azienda agricola mi disse: “Dio, patria e famiglia. Questi sono i nostri valori”. In verità Donald Trump non li rappresenta sempre in maniera univoca, però la convinzione di molti è che non si possa votare “dall’altra parte”. L’America e la sua società non sono un monolite e in certe zone prevale l’elemento conservatore strettamente legato all’ambiente rurale. Attraversando i “flyover states” (gli stati che si sorvolano in aereo da Washington a San Francisco), ho notato la prevalenza di questo atteggiamento».

Quali sono le principali richieste degli americani? «In campagna elettorale non si è sentito più parlare del muro con il Messico, elemento decisivo nella campagna di Trump del 2016. Il mio viaggio è partito proprio da lì per vedere quanto la costruzione del muro stia creando problemi ai nativi americani che vivono nel territorio degli Stati Uniti, ribaltando il problema dell’immigrazione. In questo momento il Covid è un tema centrale: i Democratici spingono perché queste elezioni siano un referendum sulla gestione della pandemia da parte dell’amministrazione Trump. Nelle zone a prevalenza democratica (le grandi città e le loro periferie) c’è un’attenzione maggiore e scrupolosa verso l’uso della mascherina. Ad esempio, nella sede del partito Democratico a Grand Rapids (seconda città del Michigan) tutti avevano la mascherina e i volontari che preparavano il materiale elettorale sedevano a una certa distanza».

Come ha risposto Trump? «Questo presidente ha minimizzato e spesso negato la pericolosità del virus. A oggi abbiamo due Americhe: una dice che il virus passerà e che la mascherina non è così necessaria; un’altra invece fa appello alla cautela, alle distanze sociali e alla sospensione delle attività economiche, se necessario. Non è la prima volta che questo Paese è polarizzato, ma la mia percezione dopo cinque anni che ci vivo è che questo solco si sia ulteriormente allargato».

Altri temi in gioco? «La sanità è un tema importante, ma non lo si sente allo stesso modo all’interno del paese e dei partiti. Mi ha colpito nel Texas conservatore un giovane di 21 anni, Hunter, presidente del Partito Democratico in una piccola contea (il Texas ne ha più di 250), che metteva la sanità al primo posto a causa della chiusura di un ospedale locale. Sebbene l’assistenza sanitaria sia un tema di dibattito importante (anche tra i Democratici) in campagna elettorale non se ne è parlato molto».

Altri temi come il cambiamento climatico e l’economia in crisi sono molto sentiti in certe aree del paese, vero? «Senza dubbio. Per esempio gli incendi degli ultimi mesi sono vissuti in prima persona da tutti gli Stati della costa ovest (California, Oregon e Washington), zone storicamente democratiche. Il climate change è nell’agenda di Joe Biden ma non compare in quella di Donald Trump che in questi anni ha anche ribaltato alcuni provvedimenti adottati dalla precedente amministrazione in materia ambientale favorendo l’energia fossile. 

Stessa cosa per l’economia… «Questo Paese è in crisi. Ci sono persone che nella fase più acuta del Covid hanno perso il posto di lavoro. Si parla di diversi milioni di posti non recuperati. Questo è un tema che va a braccetto con la sanità: spesso chi perde il lavoro perde anche la copertura sanitaria. A Phoenix (Arizona) ho incontrato una ragazza di 28 anni, fisioterapista, che avendo perso la copertura sanitaria mi ha detto: «Io non posso ammalarmi di Covid perché non avrei nessun tipo di assistenza sanitaria». In questo momento ci sono circa 40 milioni di cittadini americani che non hanno la copertura. Questo è però un tema rimasto ai margini della campagna elettorale: ne hanno parlato di più i due candidati alla vicepresidenza, Mike Pence e Kamala Harris, durante il loro confronto televisivo».

Ma il tema della sanità sarà ineludibile se è vero che gli Stati Uniti sono primi al mondo per numero di contagi e di morti da Covid-19. Come si fa a non agire? «In realtà l’amministrazione Trump ha presentato un ricorso alla Corte Suprema che verrà discusso probabilmente dopo le elezioni: la Casa Bianca ha chiesto di rimuovere ulteriormente le coperture garantite dall’Obamacare. Come è possibile ridurre la copertura sanitaria in un momento in cui la pandemia è in pieno corso? I Repubblicani rispondono che l’Obamacare non è il modello sanitario adatto, promettendone uno loro per ora non ancora presentato. Da parte loro i Democratici hanno avuto un forte dibattito interno tra il modello attuale e la sanità universale portata avanti da Bernie Sanders. Con la vittoria di Joe Biden alle primarie in teoria il modello proposto oggi dai Democratici è un ampliamento dell’Obamacare esistente, ma non una copertura universale per tutti come proponevano Elizabeth Warren e Bernie Sanders».

Parliamo di Black Lives Matter. È un tema influenzerà le scelte elettorali o è solo una risonanza mediatica? «Ho seguito di persona le proteste contro le ingiustizie razziali nei mesi scorsi a Washington e Kenosha (Wisconsin), mentre ora la situazione sembra più calma. Il tema è di grande importanza perché in questo Paese esiste tuttora una forma di razzismo istituzionale che colpisce le minoranze e in particolare gli afroamericani che sono circa il 13% della popolazione. Questi sono spesso discriminati nel sistema giuridico: ad esempio in alcune prigioni il numero di afroamericani è sproporzionatamente più alto rispetto a quello degli altri detenuti bianchi». 

Il tema è diventato oggetto di dibattito elettorale..«Sì, da una parte i Democratici sostengono la necessità di diminuire gli eccessi di violenza da parte della polizia, ma senza tagliare i fondi alle forze dell’ordine (lo stesso Joe Biden ne è contrario). Dall’altra parte c’è stata una demonizzazione delle proteste: Trump ha definito vandali violenti i dimostranti. Questa è una definizione che a mio parere non corrisponde alla realtà dei fatti: ci sono state violenze, ma credo si possa affermare con certezza che si trattava di una minuscola parte rispetto alla maggioranza delle proteste svoltesi in maniera del tutto pacifica».

Un altro tema molto dibattuto è la nomina di Amy Coney Barrett alla Corte Suprema… «È un argomento che ha un’importanza centrale soprattutto per i Repubblicani. Non era mai accaduto nella storia degli Stati Uniti che un giudice venisse nominato a così pochi giorni dal voto. Un esempio: nel 2016 alla vigilia delle elezioni che avrebbero portato alla vittoria di Trump, venne scelto dal presidente Obama un giudice per la successione a un seggio vacante e i Repubblicani (che avevano la maggioranza al Senato) in febbraio bloccarono la nomina in quanto troppo a ridosso del voto e ribadendo che sarebbe stata decisa dal prossimo presidente. Lo stesso presidente alla Commissione Giustizia (un senatore della South Carolina) disse: «Non voglio creare un precedente: è troppo a ridosso». Ora si stanno verificando le stesse condizioni e il medesimo senatore dice: «Non importa quello che abbiamo detto quattro anni fa. In questo caso il presidente Trump ha diritto ad una nomina». La Costituzione degli Stati Uniti lo consente, ma è politicamente contestabile da parte dei Democratici».

Perché è importante la nomina di Amy Coney Barrett, giudice di formazione conservatrice? «Qui i giudici non si scelgono per partito, ma in base alla loro cultura giuridica e orientamento culturale. Lei ha dichiarato di volersi collocare nel solco di Antonin Scalia, un giudice che intendeva applicare la Costituzione alla lettera. Un orientamento quindi più conservatore rispetto alla giudice Ruth Bader Ginsburg (deceduta poche settimane fa) che invece era l’icona dei progressisti all’interno della Corte Suprema. Le decisioni adottate da questo organismo si riflettono in maniera importante sulla vita dei cittadini: in passato i matrimoni tra persone dello stesso sesso e l’Obamacare sono stati approvati proprio grazie a decisioni della Corte Suprema. La nomina è decisiva perché sposterebbe gli equilibri interni: dagli attuali cinque giudici di cultura giuridica più conservatrice rispetto ai quattro più progressisti, si passerebbe a sei a tre. In questo modo sarebbe molto più probabile in una serie di casi (aborto, possesso di armi ed eventuali contestazioni post elettorali) un voto favorevole all’amministrazione Trump e alla maggioranza repubblicana al Senato».

Una mossa per ostacolare sul nascere un’eventuale presidenza Biden, considerando che le decisioni della Corte Suprema sono vincolanti per tutti in quanto ultimo grado di giudizio? «Direi di sì. Lo stesso presidente ha fatto menzione a questo. Siccome Trump continua a dire ai suoi sostenitori che il voto per corrispondenza comporterà dei brogli (affermazione che però non trova riscontro), ci saranno delle cause che arriveranno alla Corte Suprema e sarà pertanto importante avere questa giudice eletta. Questo potrebbe far inorridire, considerata la natura super partes della Corte, oltre a gettare discredito sul sistema elettorale e nello specifico sul voto per corrispondenza».

Trump ha definito il voto per posta un sistema fraudolento mentre i Democratici sono più favorevoli a causa della pandemia. Come stanno le cose? «Quasi 60 milioni di americani hanno già votato. È un numero molto alto, superiore a tutti i voti anticipati avvenuti nel 2016. Qui vale il cosiddetto “early voting”, ovvero si può andare a depositare la scheda elettorale in anticipo o la si può spedire per corrispondenza. È vero che i Democratici spingono per questo tipo di voto vista la diversa percezione che hanno di questa pandemia. Bisogna però sottolineare che quasi ogni Stato adotta un sistema diverso. 

Quali sono? «Li potremmo radunare in tre categorie. Prima: Stati che votano per corrispondenza da anni (Colorado, Washigton State, Utah) dove la scheda arriva a casa e la si rispedisce una volta compilata. Seconda: Stati che hanno introdotto il voto postale a causa della pandemia (California). Terza: Stati che consentono il voto per corrispondenza, ma facendo una richiesta specifica per la scheda (in stati come il Texas viene richiesta una giustificazione che però non contempla il Covid)».

A chi giova di più? «I Democratici hanno un obiettivo: devono far si che la gente vada a votare. Hillary Clinton perse le elezioni a causa della mancanza di un largo sostegno da parte di alcune categorie dell’elettorato democratico come afroamericani, latini, donne delle periferie. Non sono così certo che questi 28 milioni corrispondano a tanti Democratici che si recano alle urne. Significa però che c’è una forte risposta al voto. Ma vuol dire anche che si complicherà terribilmente lo spoglio delle schede perché le strutture delle singole contee non sono sempre attrezzate. Di conseguenza le operazioni di voto potrebbero protrarsi oltre la notte elettorale».

L’affluenza alle urne può essere influenzata da temi internazionali come lo scontro economico con la Cina, la Russia e i rapporti raffreddati con i tradizionali alleati degli Stati Uniti? «L’affluenza si aggira mediamente tra il 50-60%. Non credo che i problemi di politica estera possano essere quelli che spingono al voto. Questo è un Paese fortemente. Indubbiamente una figura come quella di Trump ha contribuito ad esacerbare le lacerazioni interne, soprattutto in questi mesi di crisi su tre livelli: sanitaria, economica e sociale».

Quindi siamo di fronte a una specie di referendum? «La spinta più forte al voto da entrambe le parti siano proprio la forte personalità del presidente e le sue continue provocazioni su qualsiasi argomento. Questo è un presidente che nonostante le indicazioni degli esperti scientifici di evitare gli assembramenti per il rischio di contagio da Covid-19, continua a organizzare comizi ed eventi elettorali con migliaia di persone. Al contrario i Democratici tengono le mascherine ed evitano questo tipo di assembramenti, privilegiando i raduni contenuti dove i partecipanti assistono dalla propria auto. Credo che siano più questi temi a suscitare una partecipazione al voto rispetto agli argomenti di politica estera».

A causa del voto per corrispondenza, le operazioni di spoglio potrebbe richiedere più tempo del previsto. Se a questo si aggiunge la durezza della campagna elettorale, potrebbero esserci conseguenze in caso di vittoria risicata conseguita grazie ai grandi elettori ma con minor voto popolare? «Si percepisce della tensione. Non ovunque e non allo stesso modo. Potrebbe accadere che le circa 300 azioni legali già avviate dai Repubblicani e in minor numero dai Democratici (gli uni per limitare il voto per posta, gli altri per rimuovere questi ostacoli) possano portare a delle incertezze in alcuni stati. Bisogna raggiungere 270 grandi elettori e se qualcuno li otterrà già la notte del 3 novembre, allora si saprà chi sarà il nuovo presidente». 

E se non dovesse succedere? «Se il sospetto di manipolazioni (vere o presunte) venisse a galla, questo potrebbe creare scenari un po’ imprevedibili, compresa la diffusione di risultati parziali sui social media relativi solo al voto espresso in persona e quindi subito scrutinato ma non dei risultati delle schede per corrispondenza il cui spoglio si preannuncia più lungo. Sicuramente il clima è molto teso, soprattutto con un presidente che da mesi ripete che il voto per posta non è affidabile. Cosa accadrebbe se in uno stato Donald Trump ottenesse la maggioranza dei voti espressi di persona, ma i voti postali arrivati successivamente ribaltassero il risultato? Ad esempio nel 2000 la vittoria in Florida venne decisa dalla Corte Suprema alla metà di dicembre».

Potrebbero essere anche degli scontri? «Ci sono aree del Paese dove il malcontento potrebbe degenerare in esasperazione e tensioni di piazza, aggravate anche dall’ampia diffusione delle armi. In Wisconsin e Michigan si sono viste milizie armate con armi pesanti dimostrare davanti al palazzo del governatore. In altri Stati è legale recarsi alle urne con le armi in mano. Tutti questi elementi fanno ritenere che serva un monitoraggio attento di una situazione estremamente complessa».

Soprattutto se questo malcontento è radicato nei cosiddetti “swing states”… «Gli occhi sono puntati su Pennsylvania, Ohio, Michigan, Wisconsin, dove la partita è particolarmente incerta. In Michigan l’Fbi ha arrestato 14 persone che stavano complottando un sequestro della governatrice democratica. Ci sono quindi elementi concreti che confermerebbero che in qualche Stato la situazione sia abbastanza tesa».

Molti sostenitori di Trump sono seguaci della teoria del complotto Qanon. Questo movimento, oltretutto definito dall’Fbi come minaccia terroristica, quanto è radicato nel Paese? «Il movimento esiste, sebbene sia difficile quantificarlo. Lo stesso presidente ha rilanciato in certi casi su Twitter teorie complottiste prive di qualsiasi fondamento. Lui ha provato a giustificare questa scelta, ritenuta da alcuni irresponsabile visto il ruolo istituzionale che Trump ricopre. Queste teorie sono diffuse e spesso parlando con le persone le si percepiscono. Non credo però che arrivino in maniera trasversale a tutti. Ricordiamo che l’America rurale non legge giornali come il New York Times, ma tendenzialmente si informa con i tweet del presidente, la Fox News e il network OANN (OneAmerica News, assai di parte). C’è quindi una responsabilità da parte dei social network e dei media nel rilanciare teorie complottistiche che indubbiamente hanno fatto breccia».


Sesta di una serie di interviste con giornalisti esperti di politica americana in vista delle Presidenziali Usa 2020