di Giuseppe Caruso *

Il primo impatto con la città di Kampala è stato angosciante. Pensavo di sapere cosa volesse dire “Paesi poveri”. In macchina verso il Benedict Medical Center non potevo credere ai miei occhi. Ero scioccato. Attraversando la periferia della capitale, con lo sguardo atterrito guardavo, attraverso il finestrino, quel susseguirsi di strade non asfaltate e tortuose, di bancarelle strapiene di frutta e verdura, di persone scalze e malvestite, di bambini nudi e trasandati.

Niente era come avevo immaginato. Perché non si può. Non si può comprendere fino in fondo, attraverso uno schermo e vivendo nel benessere e a migliaia di chilometri di distanza, in che condizioni vivono tante povere persone. Avevo davanti ami miei occhi la miseria. Immagini forti, quasi violente, vivide che raffiguravano povertà, fame, bisogno. Tante piccole baracche fatiscenti, quelle che per loro erano case: un'unica stanza che fungeva da cucina, soggiorno, camera da letto, con le pareti fatte di fango e una lamiera come tetto. Le fognature che scorrevano proprio accanto.

Era tutto un caos. Le macchine si muovevano disordinate, la gente si gettava imperterrita nel traffico, rischiando continuamente di essere investita, nell’intento di raggiungere l’altro lato della strada. Una moto, a pochi metri dalla nostra vettura, veniva tamponata da un’auto a un incrocio, ma l’uomo che la guidava subito si rialzava e riprendeva a guidare, come se nulla fosse successo, come se un’ammaccatura in più, d’altro canto, non facesse la differenza.

È stato come un sollievo riconoscere, nel mezzo di quel panorama aspro e ignoto, la struttura del Benedict Medical Center, che si ergeva su una collinetta, accanto a quella chiesa sormontata da un enorme crocifisso rosso.

Più volte ho pensato di volere ritornare immediatamente in Italia, nella mia casa, al sicuro. Come se fuggendo da quella dimensione così surreale potessi mentire a me stesso e far finta di non avere visto nulla di tutto ciò, che non era vero niente. La mia forte passione per la professione medica, però, mi ha consentito di andare al di là di quelle prime difficoltà. Ero lì come medico volontario, e dovevo dare il massimo per imparare, affrontare nuove sfide e aiutare i più bisognosi, nel mio piccolo.

L’ospedale non era grande. Pochi reparti, pochi medici specialisti, pochi mezzi. Nulla a che vedere con quegli ospedali suddivisi in aree e poli, colmi di strumenti tecnologici all’avanguardia. Al Benedict Medical Center a mala pena c’erano un ecografo e una macchina a raggi X. Ma col passare del tempo mi rendevo conto che era proprio questo a renderlo così speciale: un luogo accogliente, in cui al posto di tanti fili e computer vi erano i sorrisi affettuosi e rassicuranti delle infermiere, in cui i pazienti venivano ascoltati e si sentivano al sicuro, in cui i medici facevano di tutto e si arrangiavano per aiutare i propri pazienti, pur non disponendo di tutti gli strumenti e dei farmaci necessari.

In poche settimane ho imparato davvero tanto. Non potrò mai dimenticare la gioia di aver fatto nascere dei bellissimi bambini, aiutando delle ostetriche straordinarie, pronte a insegnare quanto avevano appreso dopo anni e anni di esperienza sul campo. Ho visto dal vivo diversi casi clinici che prima avevo solo studiato sui libri, e che mai avrei pensato di potere incontrare nella mia carriera. Ho appreso nella pratica quanto sia importante comunicare, ascoltare i pazienti, dedicare loro del tempo. D’altronde, non è che i medici lì potessero fare altrimenti: disponevano delle proprie mani, dei propri occhi, della propria esperienza, visitavano i pazienti con precisione e calma. E in Africa, si sa, non c’è fretta…

Alla paura di quei luoghi, di quelle periferie, è subentrata ben presto la disponibilità a conoscerli e amarli. Come non rimanere stupiti di fronte alla gentilezza, alla disponibilità e al calore di persone meravigliose che, seppur tra le varie enormi difficoltà quotidiane, erano sempre pronta a regalarti un sorriso e a chiederti: “How are you?”, “Did you sleep well?”, “How was your day?”.

Mentre camminavo per strada mi sentivo chiamare e indicare da tutti i bambini: “Muzungu, muzungu!” (bianco, in lingua swahili). Mi guardavano e, ridendo, si chiamavano fra di loro per dirsi che era arrivato un bianco, uno strano. Perché sì, questa volta ero io il "diverso", quello dalla pelle diversa. Ma i loro sguardi non erano carichi di razzismo, di paura del diverso, erano occhi sorridenti, curiosi e mentre mi avvicinavo, i più piccoli scappavano, ma gli altri mi toccavano per capire se davvero c'era qualcosa di differente nella mia pelle, per sentire tra le dita l’effetto di capelli non così ricci e crespi come i loro.

Come dimenticare, non appena varcavo la soglia del cancelletto nero dell’orfanotrofio, quel frastuono di bambini che mi correvano incontro, che s’aggrappavano ai pantaloni, che tentavano quasi di arrampicarsi per potere abbracciarmi per primi? Trasmettevano un bisogno di affetto infinito, contagioso. Come dimenticare i pomeriggi spesi a giocare e a sorridere con loro? Quella bimba che aveva sempre voglia di saltare, e di farsi sollevare in aria. E poi i disegni con le cannucce, le lettere amorevoli, i braccialetti di lana colorati, la palla fatta di stracci e immondizia, che non si bucava mai.

Sono cresciuto tanto, sia a livello personale che professionale. È un’esperienza indescrivibile, che tutti dovrebbero provare almeno una volta nella vita. Giusto il tempo necessario per rendersi conto di quanto siamo fortunati. Di quanto troppo spesso ci lamentiamo inutilmente e ingiustamente. Giusto il tempo necessario per fotografare e memorizzare lo sguardo perso di un bambino che non ha né una casa propria né una famiglia, che non riceve l’affetto di una mamma e non mangia caramelle buonissime, che non indossa vestiti puliti e profumati e non ha giocattoli nuovi con cui divertirsi.

Giusto il tempo necessario per vedere in che condizioni igienico-sanitarie precarie vivono quelle famiglie in periferia, tra la polvere e il fango dopo la pioggia, senza un tetto caldo sotto cui scaldarsi quando fa freddo e senza la certezza di poter consumare un pasto, perché spesso non hanno nemmeno un po’ di riso o quattro fagioli. Giusto il tempo necessario per vedere l’espressione contrita e disperata di un padre che non può permettersi di ricoverare il proprio bambino malato e non riesce a guardare in faccia sua moglie perché si sente terribilmente in colpa. Giusto il tempo di vedere quella immensa felicità che provano i bambini quando compri loro i popcorn o un semplice lecca-lecca: un piccolo gesto e i loro occhi si illuminano.

È un’esperienza che ti entra dentro, fino alle ossa, che ti lascia un segno indelebile, che ti cambia in poco tempo e irreversibilmente. E se da una parte mi si è stretto il cuore di fronte a tutta quella sofferenza, e ancora adesso al solo pensiero mi viene un nodo alla gola, dall’altra sono felice di non aver girato la testa dall’altra parte: forse, proprio per questo, posso sperare di essere diventato una persona migliore, più matura e più consapevole.

* 25 anni, di Siracusa, neo-laureato in Medicina e Chirurgia, campus di Roma