di Giada Maciocia *

Non è stato difficile ambientarsi al BMC, il Benedict Medical Center di Kampala: i medici, le infermiere, gli infermieri, le guardie dell’ospedale, i dirigenti, tutti si sono dimostrati da subito gentili e disponibili. Il nostro lavoro consisteva nel seguire il medico di turno nel programma giornaliero: giro visite al mattino, OPD (Out Patient Department ossia un ambulatorio h24) al pomeriggio.

Abbiamo seguito i medici nelle loro giornate a volte routinarie, a volte con casi interessanti in emergenza. Siamo stati chiamati in sala parto o in sala operatoria ogni qualvolta ci fosse un bambino da far nascere o un caso interessante sul tavolo operatorio.

Il BMC è una piccola realtà a Luzira, nella periferia di Kampala: è un piccolo centro, con enormi potenzialità e un grande margine di miglioramento ma molto limitato se confrontato agli ospedali a cui siamo abituati. Come struttura ospedaliera riesce a gestire semplici casi in emergenza, un buon numero di casi ambulatoriali ed è un centro di riferimento per la gente del posto, specialmente per le piccole emergenze.

Ho imparato in tre settimane di collaborazione con i medici del BMC molto di più di quello che si può apprendere in un anno intero di tirocinio obbligatorio nei reparti dei nostri ospedali. I medici sono stati disponibili e comprensivi, nonostante tutte le difficoltà iniziali legate alla lingua e al diverso approccio clinico al paziente.

Nelle nostre tre settimane di permanenza, abbiamo avuto la possibilità di incontrare molti pazienti, alcuni più disponibili di altri: da persone molto reticenti a raccontare la loro storia clinica o il loro problema di salute a pazienti simpatici e felici di poter essere d’aiuto nella nostra esperienza da giovani medici in formazione.

In Uganda, abbiamo apprezzato la cordialità e la gentilezza di questo popolo, ci siamo avvicinati alle tradizioni culinarie e religiose a tratti così diverse dalle nostre, abbiamo giocato con i bambini della scuola secondaria accanto all’ospedale, ci siamo divertiti, sporcati nel fango di quel campo da calcio e tutto questo in estrema naturalezza.

Posso affermare con certezza di essere tornata in Italia con una consapevolezza nuova: l’esperienza di volontariato in Africa non deve essere affrontata con l’illusione di poter cambiare le cose, le abitudini, la mentalità di un popolo o con la pretesa di abituare le persone a un diverso stile di vita. Ogni popolo, così come gli Ugandesi, deve essere rispettato per le sue particolarità, le sue stranezze e le sue difficoltà: ho visto la bellezza del diverso, dell’inconcepibile, dell’inaccettabile secondo i canoni della cultura occidentale e non ho mai pensato che certe cose dovessero essere stravolte.

Sono tornata in Italia con la profonda convinzione che sia necessario cooperare con la popolazione locale per dare i mezzi, le competenze, le strutture, l’educazione necessari a sviluppare un territorio ricco ma ancora selvaggio. Tuttavia, svilupparsi non vuol dire necessariamente occidentalizzarsi: ogni popolo deve rimanere fedele alla propria storia e alle proprie tradizioni.

C’è molto da costruire ma c’è anche più di quello che mi aspettavo: l’Uganda sta crescendo, la popolazione è attiva e dinamica ma il divario sociale ed economico tra le varie classi sociali è ancora un problema da risolvere.

Il Charity Work Program mi ha dato la possibilità di collaborare con medici, infermieri, personale sanitario, drivers e amministratori: ognuno di loro si impegna ogni giorno per fare il meglio che può con i mezzi a propria disposizione. Il margine di miglioramento è enorme e bisogna soltanto lavorare insieme per migliorarsi. E io sono convinta di aver avuto più di quanto sia riuscita a dare: ogni futuro medico dovrebbe saper lavorare soltanto con i propri sensi e un fonendoscopio, ciò che di più importante ho imparato grazie ai medici del BMC.

* 23 anni, di Sora (Fr), studentessa del quinto anno di Medicina e Chirurgia, campus di Roma
http://roma.unicatt.it/facolta/medicina-e-chirurgia