di Carolina Quintiero *

Un lavoro nei campi, no, ma sul campo, sì. L’esperienza di Charity Work Program che ho vissuto in Perù è stata proprio così. Sono partita perché desideravo “sporcarmi le mani” e rendermi utile a qualcuno per una buona causa. Sulle mete avevo le idee ben chiare, amo il sud America, quindi il Perù era la mia prima scelta. E in questo caso la fortuna mi ha baciato.

Dopo due giorni nella capitale Lima e una notte a Pucallpa, nella regione Ucayali, io e le mie compagne di viaggio Barbara e Benedetta siamo atterrate con un piccolo aeroplano da 10 posti nel piccolo aeroporto di Atalaya, nel mezzo della selva dove il caldo forte e il sole del giorno si compensavano con la temperatura mite e ventilata della sera. 

Niente automobili in giro; solo due carrette, una per noi e una per le valigie, per raggiungere l’Università Cattolica sedes sapientiae (Ucss) di Nopoki, dove ci hanno accolto il direttore Julio e la professoressa Rosio, nostro punto di riferimento, insieme a Oliver e Richard, nostre guide in molte circostanze. Fin da subito ho potuto notare e ammirare il modo con cui accolgono le persone, molto calorose, gentili e disponibili. Tutti si salutano, anche senza conoscersi, basta incrociarsi per strada con qualcuno: un gesto che è diventato così normale anche per me che, al ritorno in Italia, mi veniva spontaneo salutare chiunque incontrassi per strada. 

Il nostro lavoro “sul campo” consisteva nell’«osservare tutto ciò che a livello igienico e salutare non andava bene al fine di proporre delle strategie atte a migliorare la situazione». Oltre  a questo, sotto suggerimento di un nostro professore, ci siamo occupate di costruire, con l’aiuto di Richard e Oliver, un piccolo impianto che serve per filtrare e depurare l’acqua al fine di renderla potabile. La non potabilità dell’acqua ad Atalaya è un problema molto importante; com’è normale che sia, chi nasce, vive e cresce in queste zone ha sviluppato degli anticorpi tali da non cadere in infermità continue legate a cibo e acqua, ciò però non esclude il fatto che un miglioramento delle condizioni e soprattutto dei beni di prima necessità, come appunto l’acqua, porti anche a una migliore condizione di salute. Aver costruito questo impianto è un primo passo molto importante. Proprio in quest’occasione ho potuto ammirare, nelle persone che ci hanno aiutato, l’arte di sapersi arrangiare con quel poco che si ha, il tutto senza disperarsi, senza arrabbiarsi e senza lamentarsi. 

In quelle poco più di tre settimane di permanenza ad Atalaya abbiamo avuto anche il piacere di conoscere alcuni studenti dell’università, ragazzi provenienti da popolazioni indigene che quindi, oltre allo spagnolo, parlano una loro lingua nativa. Erano all’apparenza ragazzi timidi e riservati ma comunque molto gentili e disponibili. Una sera abbiamo cenato a mensa con loro ed eravamo sedute a un tavolo con altri due ragazzi, Alex e Angelo di 19 e 17 anni. Abbiamo iniziato a parlare e scambiarci le solite domande che si fanno quando ci si conosce: come ti chiami, quanti anni hai, cosa studi, alcune curiosità sui nostri Paesi d’origine, fino ad arrivare al discorso famiglia. 

In quel momento Alex, dopo averci spiegato in generale qualcosa sulla sua di famiglia, ha iniziato a parlarne raccontandoci un passato molto difficile che l’ha costretto ad affrontare parecchie difficoltà (e penso che ne abbia raccontato solo una parte). Mentre lo ascoltavo e lo guardavo negli occhi non ho potuto trattenere le lacrime, pensando a come noi ci lasciamo scoraggiare per cose da poco. E mi sono anche resa conto che ascoltarlo mentre parlava era un modo per aiutarlo, perché riuscivo a percepire il suo bisogno di sfogarsi. Ne è nato un rapporto speciale da cui sono iniziate le nostre lezioni di italiano ogni pomeriggio per i nostri due nuovi amici.

Nel corso della nostra esperienza, abbiamo visitato le piantagioni di cacao, caffè ed ananas; siamo andate in alcune località dove vivono solamente popolazioni indigene; abbiamo fatto un’escursione lungo il Rio Tambo con le “barchette” tipiche; abbiamo visitato un paio di quebrada, delle piscine naturali di una bellezza unica dove la gente è solita andare a bagnarsi la domenica pomeriggio e siamo anche andate a ballare con alcuni dei ragazzi dell’università imparando tutti i balli e le canzoni della selva nonché la tanto amata cumbia.

Non so se ho reso cosa abbia significato questo Charity Work Program. Posso dire, con certezza, che questa, al momento, è l’esperienza più bella che abbia mai vissuto.

* 25 anni, di Pavia, studentessa del secondo anno della laurea magistrale in Food marketing e strategie commerciali, interfacoltà di Economia e Giurisprudenza e di Scienze Agrarie alimentari e ambientali, campus di Piacenza