di Gian Luca Potestà *

Scrisse Pasolini che la morte è il montaggio della vita. Tenendo come ideale punto di riferimento i cinquantacinque giorni della prigionia di Aldo Moro, dal 16 marzo al 9 maggio 1978, viene da chiedersi se la sua lunga agonia riveli molto o poco della sua vita.

Proviamo a immaginarlo nei quattro metri quadrati della “segreta” ricavata dietro una libreria al pian terreno di Via Montalcini. Semisdraiato sul letto, appoggiato a un paio di cuscini – così raccontarono poi i brigatisti – passa gran parte della giornata a scrivere. Durante la prigionia vive della scrittura. Colui che era sempre stato considerato un abatino dalla prosa contorta e dai disegni evanescenti e inafferrabili, mostra lucida e immediata consapevolezza della situazione in cui si trova e da cui vuole uscire. A questo scopo fa appello ad amici e colleghi, argomenta, discute, polemizza. Infine, si abbandona all’invettiva e al rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato.

Sarebbe certamente riduttiva la lettura di chi ha sostenuto e ancora sostiene che l'unica sua preoccupazione era salvare la pelle. A parte il fatto che non si vede che cosa ci sarebbe di riprovevole in questo, Miguel Gotor, nella sua edizione di tutte le Lettere dalla prigionia, ha capovolto la questione, suggerendo che “il vigore morale di questo epistolario è proprio nell’antieroismo programmatico di quest’uomo, nella sua normalità”.

Le lettere mostrano i fili interrotti di una riflessione sospesa fra teologia e politica. La sera prima che il padre fosse rapito, rientrando a casa, il figlio Giovanni lo trovò immerso nella lettura del Dio crocifisso di Moltmann. Tra i libri che Moro aveva con sé la mattina dopo, al momento del rapimento, c’era un'opera del teologo e filosofo della religione Italo Mancini, docente a Urbino, studioso in quegli anni di Dostoevskij e di Tolstoj. Durante i cinquantacinque giorni, il prigioniero chiese e ottenne una Bibbia, fu visto pregare e ascoltare la messa alla radio.

A questi elementi ben noti ne vanno aggiunti altri meno considerati. Nella riflessione serrata del prigioniero si avvertono inflessioni profetiche e la stupefatta consapevolezza dell’imminenza della morte, percepita come l’esito cui non potrà sfuggire. Moro preannuncia con lucidità la fine imminente di una stagione politica e dei suoi protagonisti, scorge i segni premonitori della rovina del suo partito, lontano dalla sua tradizione umanitaria e vocazione cristiana, e dello sgretolarsi di un sistema di equilibri politici e istituzionali che non potrà sopravvivere, non tanto alla scomparsa del suo artefice, ma al modo con cui cinicamente ci si illude di liquidarlo. Parla poco di socialisti e ancor meno di comunisti. Parla dei compagni di partito e lamenta la loro cecità, incurante della tempesta che si prepara.

Durante il sequestro, da più parti si mise in dubbio la “verità” delle lettere (delle poche allora note e pubbliche). Il ministro degli interni Cossiga le definì “non moralmente autentiche”. Si parlò di Moro come trasformato, obnubilato, stoccolmizzato (nel senso di inconsapevolmente connivente con i carcerieri), persino drogato. Mentre grafologi e criminologi cercavano conferme in quei documenti, lui rintuzzava puntualmente, non solo affermando di essere pienamente padrone di sé, ma sostenendo che le posizioni da lui argomentate e sostenute dal “carcere del popolo” (ventilando lo scambio di prigionieri) non erano una trovata peregrina, inventata su due piedi per cercare di scapolare, ma si ponevano pienamente in linea con idee e dottrine da lui sostenute per tutta la vita, senza tentennamenti e in tempi non sospetti, da politico e da docente di diritto.

Sta qui un nodo importante, da cui dipende non solo il riconoscimento della dignità del prigioniero e della continuità della sua riflessione intellettuale, ma l’effettiva considerazione del valore e dell’attualità del suo messaggio, riguardante la politica come sforzo di mediazione e di inclusione di soggetti sempre più ampi e lontani entro l’orizzonte di una democrazia partecipativa, il cui fondamento deve restare saldamente ancorato al mondo della vita.

Nelle lettere balza agli occhi la questione del significato che Moro cerca di attribuire al percorso in cui si trova gettato. Resistenza e resa a una necessità superiore, che contrasta con la Promessa e lo sottopone a un disegno misterioso che gli sfugge. Ebbene, Moro rifiuta energicamente il ruolo della vittima che deve morire bellamente per le responsabilità e l’indifferenza altrui. Le lettere danno voce a un uomo che, continuando a proclamare nel buio della cella la fede della sua vita, proprio in nome di essa non accetta di essere immolato come vittima su di un’ara eretta da altri. Moro si oppone strenuamente all’idea antica della sostituzione applicata a lui e cerca sino all’ultimo di mantenere aperto ogni spiraglio, rifiutando di farsi innalzare a capro espiatorio, destinato fin dall’origine alla morte. Le lettere suonano così come la contestazione più ferma nei confronti di ogni tentativo di riproposizione di un’ideologia della rassegnazione come del sacrificio. Anche per questo sono fra i documenti letterari e teologici più vivi del Novecento italiano.

* docente di Storia del cristianesimo presso la facoltà di Lettere e Filosofia e direttore del dipartimento di Scienze religiose. Coordinatore della ricerca d’Ateneo