di Antonio Martinelli *


Volete sapere come è iniziato il mio Charity Work Program in Terra Santa? La prima sera alla Società Antoniana chiesi a una suora cosa mi avrebbero fatto fare il giorno successivo. La sua risposta fu: “You will work in the garden”. Pensai che come giardiniere/contadino, con una zappa in mano a lavorare nell’orto del convento, me la sarei cavata bene o quantomeno avrei evitato di fare danni: non avevo considerato che la suora potesse aver detto “garten” invece di “garden”. Vuoi la pronuncia poco British della sorella, vuoi gli effetti del jet lag sulla mia capacità di comprensione (tra Italia e Palestina c’è solo un’ora di fuso orario, ma bastano e avanzano per me), la mattina dopo dieci bambini dell’asilo della Società Antoniana mi circondavano e stavano lì a guardarmi con scritta in faccia la domanda: “E tu saresti?”.

Dopo una mattinata a insegnare a fare capriole, a imboccare i bambini e a colorare con loro, l’azzurro della maglietta del Charity Work Program non era più tanto acceso. Parlavo con le maestre dell’asilo, simpatiche e sempre con qualcosa da far mangiare ai bambini, e mi chiedevano come fosse l’Italia o mi raccontavano che un loro familiare era riuscito ad arrivarci e che ora viveva molto meglio. Tutto sommato era una situazione normale, allietata dall’armonia creata dagli schiamazzi dei bambini intenti a giocare.

Ho poi guardato un gruppetto di bambini che giocava con le costruzioni e in particolare uno in mezzo a loro, di nome Jalaal: aveva costruito un mitra con i lego e così tutti gli altri con lui. Giocavano a spararsi, si inseguivano, cadevano poi ricominciavano. Se non fosse stato per la spiegazione delle maestre avrei semplicemente pensato a un gioco poco educativo. Dicevano, invece, che era normale, che i bambini, anche se di appena tre anni, vedono spesso soldati e uomini armati per strada e non c’era da sorprendersi. La sensazione che ebbi in quel momento l’avrei avvertita spesso in seguito: circondato dalla tranquillità, dalla bellezza di una terra ricca di storia e abitata da persone stupende, vedere qualcosa di fuori posto e intrinsecamente sbagliato.

Nel pomeriggio aiutavamo le Suore di Madre Teresa di Calcutta ad assistere persone con scompensi psico-fisici: cercavamo di parlare con loro, giocavamo e cercavamo di stimolarli facendoli ascoltare musica (come le mie compagne di viaggio mi avevano fatto notare, James Blunt non era il cantante migliore per questo). Un pomeriggio uno di loro, quasi incapace di muoversi e di comunicare, sempre perso nel suo mondo, mi ha chiamato papà mentre lo aiutavo a lanciare la palla: era già passata una settimana dal nostro arrivo a Betlemme, ma solo allora capii noi cosa ci stavamo a fare in quel luogo.

I nostri non erano compiti “da ufficio” e forse neanche vicini al mestiere del “cooperante”, per il quale studio da ormai due anni nel mio corso di laurea magistrale in Cattolica. Seduti al tavolo del refettorio ne discutevamo spesso tra noi, del fatto che per fare quello che ci veniva chiesto non erano necessarie conoscenze o skills particolari: poteva farlo chiunque. Non avevo capito il valore delle nostre azioni e non lo avevo capito perché guardavo ad esse nel modo sbagliato. Quell’uomo semi-paralizzato su una sedia viveva di fantasie, di ricordi, e il mio gesto di aver giocato con lui deve averlo portato a ricordare qualcosa di bello, a sorridere e a esprimersi: penso che una cosa del genere valga molto, anche se non si può scrivere in un CV.

Noi in Palestina servivamo a quello, a dare a quelle persone normalità, le cose di tutti i giorni che a noi sembrano tanto scontate e che ignoriamo in favore dell’eccezionalità. Dovevamo allontanarli dai loro problemi, sia quelli interiori sia quelli dovuti a ciò che li circondava, e portare loro la nostra banalità: un sorriso, un trucco di carte, un gioco nuovo o una canzone di James Blunt (forse era troppo melanconico ma sono ancora convinto fosse il genere azzeccato).

È bello poter dire che quella sensazione, di “incidere” almeno un po’ sulle persone attorno, è tornata spesso durante la mia permanenza. La settimana successiva è iniziata la mia esperienza da “educatore” al campo estivo Steps, gestito da una delle suore più simpatiche mai incontrate, Sorella Ester (o in rima “Sister Esther”). I ragazzi qui erano decisamente più grandi, alcuni già adolescenti, e gestirli era assai più impegnativo.

Il secondo giorno allo Steps costruii una scala a pioli con una vecchia corda da trekking e dei moschettoni: non dimenticherò lo sguardo dei bambini felici che mi chiedevano di aiutarli a salire per dondolare o i ragazzi e le ragazze più grandi che si sfidavano a chi arrivava più in fretta a toccare la trave della tettoia a cui la corda era assicurata. Era solo una corda, era banale, ma li rendeva felici: li allontanava dalle loro situazioni familiari, dai problemi di salute, dalle difficoltà insite nel vivere in un territorio disagiato dove disoccupazione e violenza turbano la vita degli adulti.

Abbiamo parlato di questa realtà visitando varie organizzazioni attive a Betlemme, tramite incontri organizzati dalla Ong per la quale lavoravamo, ATS Pro Terra Sancta. Tra le tante ricordo con molto piacere la visita alla scuola per sordi “Effetà”, dove si cerca di aiutare gli studenti a sviluppare al massimo il loro udito latente, così da permettere loro di trovare posto nella società, ma anche l’impegno dell’organizzazione Wi’am nel proporre soluzioni di mediazione pacifica tra individui, famiglie e tribù in conflitto.

Vivere in Palestina e svolgervi attività di volontariato non è facile: ci sono moltissimi controlli per chi arriva e spesso scontri più o meno violenti tra i locali e l’esercito israeliano, ma penso che nonostante tutto il nostro contributo possa essere importante nella sua banalità. Le persone che ho incontrato e che hanno sorriso con me, il caldo incessante di Gerico e le oasi nel deserto, i monumenti storici di Gerusalemme e i vicoli pieni del profumo dei falafel: tutto questo, nella sua banale straordinarietà resterà con me, sempre.

* 25 anni, di Banzi (PZ), secondo anno del corso di laurea magistrale in Politiche per la cooperazione internazionale allo sviluppo, facoltà di Scienze politiche e sociali, sede di Milano