di Chiara Mocchi e Francesca Rizzon *

Les blanches, les blanches!”, “Les mères de mes enfants!” (“le bianche, le bianche”, “le madri dei miei figli”): sono le parole che ci hanno accompagnato per tutto il periodo di volontariato a Mbalmayo, in Camerun. La primissima cosa che capisci (e a cui devi necessariamente fare l’abitudine) è che passare del tempo in Africa vuol dire vedere i tuoi schemi mentali, alcuni dei quali frutto di pregiudizi, completamente ribaltati “a tuo sfavore”.

All’arrivo in Camerun, di notte, ci aspettavano per portarci a destinazione. Mentre la strada scorreva sotto al nostro pick-up e il buio ci avvolgeva, tutto ciò che riuscivamo a distinguere erano i primi odori d’Africa: solo il mattino del giorno dopo ci avrebbe regalato colori intensi e vivaci, capaci di dare una personalità frizzante e pittoresca al paesaggio. 

L’impatto con questo Paese non è stato semplice: ci siamo subito scontrate con le diversità e con la sensazione di sentirci estranee. È la legge del contrappasso che colpisce ogni bianco, in queste situazioni: diventa egli stesso minoranza in una società di “uguali”, oggetto di mille occhi puntati addosso. Nei supermercati, per le strade, nei comportamenti delle persone: in noi prevaleva più la consapevolezza delle differenze che delle somiglianze rispetto alla nostra realtà. Tra le tante barriere, quella linguistica giocava sicuramente un ruolo importante. Ci siamo chieste per un po’ se il problema fosse che non sapevamo poi tanto bene il francese, nonostante i numerosi anni di studio della lingua alle spalle.

Passata la prima settimana, però, grazie all’aiuto degli altri volontari, dei ragazzi del servizio civile, degli insegnanti della scuola di Nina Vacances, delle splendide persone che lavorano al progetto, e grazie alla routine delle mansioni che eravamo chiamate a svolgere, le insicurezze hanno lasciato spazio a una maggiore consapevolezza di noi stesse, delle nostre capacità (e dei nostri limiti). Siamo riuscite a vivere appieno l’esperienza di volontariato, guardando alle difficoltà in modo meno autocritico e più autoironico.

Lo stage comprendeva sia attività sul campo che in ambito amministrativo nel quadro del progetto di cooperazione “Scateniamoci!”. Per questo, abbiamo studiato il contesto in cui opera il Coe in Camerun, attraverso colloqui e collaborazioni con gli enti istituzionali e le cooperative.

Il programma è finalizzato al miglioramento delle condizioni dei detenuti nelle carceri di alcune tra le più importanti città del Paese. Per un mese e mezzo siamo state a contatto con i detenuti. Un lavoro difficile in Italia quanto in Camerun. Bisogna sapere che per delle persone costrette in luoghi chiusi tutto il giorno, avere dei contatti con delle persone diverse e poterci parlare sono una bellissima opportunità oltre che un momento di svago. Come per tutte le cose, comunque, è importante partire con il piede giusto, in modo propositivo e con la mente bene aperta.

Nel nostro Charity Work Program abbiamo cercato di metterci in gioco completamente e, un po’ alla volta, la realtà, che ci sembrava così distante, è diventata familiare. Un’occasione privilegiata per sperimentare sul campo molte delle nozioni apprese nei nostri studi e per sviluppare competenze, come l’attitudine al problem solving. Un’esperienza di questo tipo non ti lascia “intatta”: le circostanze che si è chiamati a vivere lasciano un segno e ti “costringono” ad abbracciare le differenze, senza temerle.

* Chiara Mocchi, 24 anni, di Bergamo (a sinistra nella foto in alto), e Francesca Rizzon, 25 anni di Bareggio (al centro della foto), studentesse del secondo anno della laurea magistrale in Politiche per la cooperazione internazionale allo sviluppo, facoltà di Scienze politiche e sociali, sede di Milano