di Damiano Palano *

«È un nuovo giorno in America. Oggi più persone andranno al lavoro, torneranno dalle loro famiglie e dormiranno più tranquillamente di quanto non abbiano mai fatto prima. Tutto questo perché un uomo rifiuta di accontentarsi, mettendo le persone prima della politica». Alcuni mesi fa, mentre negli Stati Uniti si accendeva la campagna per le primarie e iniziava la lunga corsa verso la Casa Bianca, queste parole entravano nelle case degli americani, accompagnando le immagini di un paese laborioso e sicuro. L’«uomo che rifiuta di accontentarsi» e che mette «le persone prima della politica» non era però Donald Trump, o Ted Cruz, o un altro aspirante alla poltrona presidenziale, ma Frank Underwood, il sulfureo protagonista di House of Cards.

E il «nuovo giorno» annunciato dallo spot era in realtà la ripresa della serie, giunta ormai alla sua quarta stagione. L’idea di sovrapporre la campagna elettorale fittizia rappresentata nella serie e la campagna reale – che peraltro si sta rivelando come la più incerta e combattuta da molti decenni a questa parte – è senza dubbio una riuscita trovata pubblicitaria. Ma i punti di intersezione tra realtà e finzione non si esauriscono qui. E non solo perché gli sceneggiatori della serie sembrano ormai ispirarsi sempre più spesso alla cronaca politica per imbastire le nuove trame. Ma probabilmente anche perché nello ‘specchio’ della serialità televisiva e nel mondo di intrighi allestito da House of Cards si possono probabilmente riconoscere le tracce del mutamento che negli ultimi anni ha investito gli Stati Uniti.

Per comprendere le trasformazioni politiche non è d’altronde mai sufficiente osservare le istituzioni, ma è sempre indispensabile ricostruire il mutamento degli immaginari, cioè il modo in cui si modificano le aspirazioni (individuali e collettive) e dunque ciò che ciascuno di noi si attende (o teme) dalla dimensione politica. Per questo motivo l’Iliade, l’Orestea e l’Antigone sono probabilmente importanti – per comprendere il modo in cui i greci concepivano la polis e la sua legge – almeno quanto le pagine di Platone e Aristotele. Ed è per questo stesso motivo che le serie televisive come House of Cards – che, negli ultimi anni, hanno iniziato a mettere in scena (in termini sempre più crudi) le bieche lotte di potere che si svolgono nel Palazzo – offrono uno strumento importante a chi voglia indagare come, nell’età della «tarda democrazia» (o della «postdemocrazia»), l’immaginario collettivo concepisca la politica.

Sarebbe ingenuo considerare il mondo raffigurato dalla serialità televisiva come uno specchio fedele della realtà, anche se certo è difficile resistere alla tentazione di riconoscere almeno alcuni tratti di Frank Underwood in alcuni reali protagonisti politici, come per esempio – per rimanere oltreoceano – nella coriacea volontà con cui Hillary Clinton insegue da decenni il suo sogno presidenziale. E anche se l’incertezza della competizione fra i candidati alle primarie (soprattutto sul fronte repubblicano) potrebbe rendere reale una «brokered convention», cioè proprio una situazione in cui personaggi come Underwood potrebbero mettere pienamente a frutto la loro abilità nel tessere intrighi.

Ma – al di là della verosimiglianza, e degli inevitabili accostamenti con la realtà – l’aspetto più significativo che contrassegna l’operazione compiuta da House of Cards è l’esibizione (spesso compiaciuta) della dimensione più brutale del potere. In altre parole Frank Underwood non è altro che il ritratto dell’eterna libido dominandi, il simbolo di quella inestinguibile sete di potere che spinge gli esseri umani a conquistare, conservare ed estendere il potere sui propri simili. La sua filosofia non è altro che la vecchia filosofia di Trasimaco, secondo cui la giustizia non è altro che l’utile del più forte. E – in spregio a qualsiasi ideale – la sua condotta è invariabilmente guidata dal più bieco machiavellismo. Per Underwood la politica è infatti solo ed esclusivamente la sfera della ricerca del potere. Una sfera in cui le uniche armi consentite sono la menzogna, l’inganno, l’adulazione e l’intrigo. Una sfera in cui ovviamente non c’è alcuno spazio né per grandi aspirazioni ideali – siano esse l’uguaglianza, la libertà o il progresso – né tantomeno per una pallida ombra di bene comune. E una sfera in cui la risorsa su cui far leva è sempre la paura, perché – come si leggeva nell’incipit del romanzo di Michael Dobbs, da cui trae origine la serie – «non è il rispetto, ma la paura, a muovere l’uomo».

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Ai nostri occhi di europei una simile rappresentazione della politica non risulta particolarmente sconcertante. Non doveva esserlo per il pubblico britannico che lesse i romanzi di Dobbs alla fine degli anni Ottanta. E non lo è a maggior ragione nel paese di Machiavelli, dove, nella lingua di Underwood, molto spesso riconosciamo anzi quella lingua familiare, quasi una sorta di dialetto, con cui tra le pareti domestiche parliamo di politica, se non addirittura quel «familismo amorale» in cui si è fissato il tratto forse più sgradevole dell’identità italiana. Ma non è invece irrilevante che questa visione cinica (e spesso persino ambiguamente compiaciuta) della politica come pura volontà di potenza ci venga oggi dall’altra sponda dell’Atlantico.

Naturalmente si può leggere in tutta l’operazione di House of Cards una nuova conferma della vecchia ambizione americana di bandire la menzogna dalla politica, e così di smascherare le malefatte, gli imbrogli e la violenza dei potenti. Ma probabilmente – benché, come qualsiasi prodotto culturale, anche le serie televisive si prestino a mille letture diverse – le cose non sono così semplici. Perché il mondo che House of Cards mette in scena finisce col suggerirci non solo che il potere è cinico, ma che la politica non può che essere il regno del cinismo, della menzogna, della sopraffazione. In altri termini, ci dice che non è possibile una politica diversa da quella di Frank Underwood, e che tutti i più nobili ideali non sono altro che semplici mascheramenti di sordidi interessi personali.

Ed è forse proprio per l’ambigua combinazione di disgusto e ammirazione che alimenta un personaggio come Underwood, che House of Cards finisce col diventare il formidabile specchio in cui ritroviamo la condizione delle nostre postdemocrazie. Perché nella politica spettacolo che riempie le cronache quotidiane, e in cui nulla resta delle vecchie ideologie novecentesche, si alimentano a vicenda, in un fatale cortocircuito, la più completa sfiducia nella classe politica e l’ammirazione per quei leader che esibiscono senza pudore volontà di potenza e disprezzo per le istituzioni. Perché, come il caso delle primarie repubblicane negli Stati Uniti dimostra largamente, in un mondo in cui si è bombardati da flussi soverchianti di notizie (e in cui dietro qualsiasi notizia si sospetta un inganno o una manipolazione), la distinzione tra il ‘vero’ e il ‘falso’ diventa quasi impercettibile. E perché forse, quando si è finito di credere a tutto, si finisce col credere a qualsiasi cosa.

* Docente di Scienza politica nella facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica