di Giorgia Corno *

“Dove diavolo sono finita?”. Ecco cosa pensavo nella mia testa - e forse era quello che diceva anche la mia faccia - al mio arrivo a Cochabamba. Forse è stata la prima impressione o forse sono state le basse aspettative a rendere quest’esperienza così determinante per la mia vita.

Al nostro arrivo ci aspettavano tutti: ci aspettava Victoria con il pane ancora caldo e il mate de coca; ci aspettava Rocio con la determinazione che solo un líder può avere; ci aspettavano Lorenzo e Luca con tante cose da insegnare; ci aspettava Fer e il suo mondo di pianoforti e musica. E poi ci aspettavano loro: i 117 ragazzi delle Unità Educative 6 de Agosto, Eusebio Tudela Tapia II, Madre de La Divina Providencia e Luis Diez del Pozo.

I progetti che avremmo dovuto realizzare erano quattro e i temi da trattare tra i più disparati: comunicazione docenti-alunni, comunicazione padre-figlio, comunicazione genitori-insegnanti, comunicazione di coppia, lotta alla discriminazione, lotta al bullismo, rispetto per l’ambiente, come costruire un parco infantile, corso di primo soccorso e sicurezza… e chi più ne ha, più ne metta.  L’unica cosa che ci sembrava chiara era l’obiettivo che li accomunava: farci ingrassare.

La verità, che abbiamo compreso poi, è che non avere nulla ti spinge a dare di più. Abbiamo incontrato ragazzi che non hanno un computer, non hanno internet o la televisione, non hanno neppure un’aula dove tenere i loro incontri (se non uno spazio ricoperto da lamiere); ragazzi che non hanno acqua nei bagni della scuola, ragazzi che non hanno elettricità o riscaldamento nelle aule, ragazzi che mangiano una volta al giorno, ragazzi che vivono in case lasciate a metà, ragazzi che lavorano e maneggiano strumenti (altro che Bob l’aggiusta-tutto); ragazzi che non sanno cosa siano i diritti dell’infanzia, ragazze che più che ragazze sono mamme, ragazzi che giocano in mezzo a chiodi e fili arrugginiti, che subiscono violenze, che non sanno dove sia il confine del loro paese; ragazze che non mettono jeans e t-shirt perché vestirsi da cholita fa molto più chevere.

Abbiamo incontrato ragazzi a cui il sorriso non manca mai (e neanche una empanada da offrirti). Ma allora cosa c’é di più umano di questo? Perché, nonostante tutto, a me manca sempre qualcosa? Perché in fondo non mi soddisfa nulla? Il punto di svolta, per me è stato tutto qui: la Bolivia. Qui mi sono accorta di come tutto sia così semplice, non ci vuole molto per essere felice. L’importante è tener vivo quel desiderio che ci spinge a costruire parchi giochi, a mettere in scena un cortometraggio o un teatro, a improvvisare un X-Factor Boliviano o che ti spinge ad andare dall’altra parte del mondo per scoprire te stessa.

La mia #altraestate non mi ha dato spiaggia, mare, feste in discoteca, costume e selfie tattico. Mi ha dato qualcosa in più: ho capito che davvero “voglio vivere così.” L’esperienza del Charity Program mi ha dato la certezza che ho intrapreso il giusto percorso di studi e non perché salverò il mondo, ma perché sono sicura che le realtà con cui condividerò parte della mia vita mi insegneranno a ridurre il mio essere felice alla bellezza della semplicità.

Ci sarebbe molto altro da raccontare e spero che Ivano sia più bravo di me a farlo. Per ora, Gracias Bolivia, te dejó un pedazito de mi corazón! Viva Cochabamba Mayllapipis!

* 23 anni, di Varese, iscritta al secondo anno del corso di laurea magistrale in Scienze politiche per la Cooperazione internazionale allo Sviluppo, facoltàà di Scienze politiche e sociali, campus di Milano