di Federica De Giorgi *

Riassumere in una pagina ciò che è stato per me il Guatemala. Niente di più difficile poteva venirmi chiesto di fare al mio rientro, eppure in qualche modo penso che mettere nero su bianco un’esperienza tanto profonda e significativa serva in qualche modo a razionalizzarla e ad accettare che si sia conclusa.

Il Guatemala ti resta dentro. O meglio, ti resta attaccato ai vestiti, col suo profumo forte di caffè e legna bruciata; conficcato nelle orecchie, ormai abituate ai suoni gutturali del tz’utujil e alla musica della marimba per le strade; impresso negli occhi, con i colori sgargianti delle tele tradizionali e i panorami mozzafiato. E, soprattutto, il Guatemala ti resta aggrappato al cuore, creando un legame che nessun fuso orario può spezzare.

È una mattina di metà luglio quando io e la mia compagna d’avventura ci troviamo catapultate dall’altra parte del mondo senza quasi accorgercene. Neanche il tempo di conoscerci bene, di realizzare ciò che ci aspetta e di farci qualsiasi tipo di aspettativa, che è già tempo di partire. Ad accompagnarci c’è solo una lista interminabili di raccomandazioni – non prendere bevande con ghiaccio, non indossare abiti sopra il ginocchio, non accettare mai cibo di strada, e via dicendo – e ben poche aspettative. Semplicemente si va, consapevoli di essere le due fortunate fra molti candidati.

Sin dal primo giorno, però, capiamo chiaramente che il progetto in cui siamo capitate a lavorare non è affatto come tutti gli altri. “Alma de Colores” – e ci si potrebbe fermare solo al nome! – permette a ragazzi e ragazze disabili di San Juan la Laguna di seguire i loro sogni, di sentirsi parte delle loro comunità facendo il lavoro che più piace loro e di rompere il circolo vizioso per cui disabilità è sinonimo di inutilità. 

Ci verrà poi spiegato che in Guatemala tutto ciò è ancora più straordinario perchè manca qualsiasi tipo di sussidio per le persone disabili e che in realtà è già tanto essere accettati dalla propria famiglia d’origine. Un progetto esemplare, una piccola famiglia, un orizzonte non troppo lontano a cui puntare e per cui lottare, insieme. 

Tutto questo è stato per me il Guatemala, e non solo. Se fino a poco prima di partire mi sentivo incerta, insicura e pessimista nei confronti del mio futuro professionale e della scelta intrapresa con il percorso di laurea magistrale in Cooperazione, quest’esperienza mi ha profondamente convinto di essere sulla strada giusta. 

Toccando con mano un progetto di cooperazione internazionale, essendo chiamata in prima persona a dire la mia su cosa poter fare per migliorarlo e come gestire certe problematiche, è scattata dentro di me una scintilla. Lontano dai libri e da tutta la teoria, mi sono scoperta molto più intraprendente, interessata e capace di quanto pensassi all’interno delle aule universitarie. So ora che questo è davvero il mio posto: sul campo, a contatto con le persone e immersa in culture diverse. Perchè è vero, senza uno scambio e senza un cammino insieme non c’è vero sviluppo. 

* 24 anni, di Lodi, corso di laurea magistrale in Politiche per la Cooperazione internazionale allo Sviluppo, facoltà di Scienze politiche e sociali, campus di Milano