L’intervista al professor Paolo Maggiolini fa parte dello speciale dedicato alla tragedia del Paese dei cedri e intitolato Apocalisse a Beirut, implosione di un Paese


Sono drammatiche le ultime ore vissute dagli abitanti di Beirut che si sono svegliati questa mattina sotto un cumulo di macerie dopo la spaventosa esplosione di 2700 tonnellate di nitrato di ammonio chiuse da sei anni in un deposito nei pressi del porto.

Una catastrofe che conta per ora almeno 100 morti e 4000 feriti ricoverati negli ospedali già al collasso, sulle cui cause il mondo si sta interrogando. Ma la domanda che tutti si stanno ponendo “Incidente o attentato?” ne sottende un’altra ben più preoccupante: l’evento tragico del 4 agosto non è forse l’esito annunciato di una profonda crisi politica ed economica che sta dilaniando il Paese da troppo tempo?

Questo interrogativo esprime il pensiero di Paolo Maggiolini, docente di “Nuovi conflitti: storia strategie, narrazione” presso la facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica. 

Proviamo a leggere la situazione del Libano in termini geopolitici. «Nell’arco degli ultimi anni il Libano ha vissuto una situazione sospesa. Si colloca tra quei paesi non coinvolti direttamente da conflitti ma che ne ha subito tutti gli effetti in termini politici. Teniamo presente che questo Paese accoglie il più alto numero di rifugiati del Medioriente in un contesto regionale complessivamente sempre più destabilizzato».

In che senso? «Il Libano ha caratteristiche specifiche che sono stati punti di forza ma anche di estrema vulnerabilità. Da sempre il suo sistema politico ha un alto livello di penetrabilità da parte delle pressioni e degli interessi delle potenze regionali. Una grande questione è il timore che il Libano venisse investito da una dinamica regionale troppo forte e prevaricante rispetto alle capacità del Paese stesso. Ci si è domandati quali conseguenze il conflitto in Siria avrebbe potuto produrre in Libano. Hezbollah è stato uno dei protagonisti nel contesto siriano e più recentemente si sono osservate tensioni tra Hezbollah e Israele nell’area del Golan. Si temeva dunque che il Paese venisse coinvolto dagli spill-over della questione siriana».

Da un lato le tensioni politiche e gli effetti della guerra in Siria, dall’altro la questione dei rifugiati e la pressione sul sistema economico e sociale. Un vero e proprio assedio… «Dal 2010-11 sempre di più. Non dimentichiamoci che il Libano ha vissuto anche una lunghissima guerra civile dal 1975 all’89, non ancora del tutto metabolizzata, e poi un lungo percorso post bellico che avrebbe dovuto produrre molte riforme che non sono state realizzate. Oggi il Paese soffre in modo plateale della combinazione di una grande crisi economica e finanziaria e di una crisi politica che è figlia di una incapacità di transitare il Paese verso una stabilità del sistema statuale e politico dopo la guerra civile. L’intenzione per risolvere il conflitto era quella di mutare il sistema politico cercando di mantenere l’equilibrio tra le componenti demografiche e comunitarie, e di creare al tempo stesso nel Parlamento e nella gestione della vita corrente dello Stato un sistema che non fosse schiavo della divisione per comunità (maroniti, sunniti e sciiti)». 

Oltre la crisi economica e oltre la povertà sempre più ingente connessa all’aumento degli esclusi in un Paese andato in default, come entra l’aspetto politico delle comunità? «Si rileva la frattura tra una componente della popolazione che protesta contro il sistema politico e una élite sempre più arroccata nel difendere le proprie rendite politiche e posizioni privilegiate. Il problema economico ha solo fatto esplodere quella sorta di bolla socio-politica che reggeva il sistema libanese sulla promessa di ridistribuire una parte delle rendite disponibili tra tutte le comunità. In realtà è diventata sempre più chiara la dinamica, simile a quella di altri contesti mediorientali, dove c’è una élite che combatte per mantenere il potere a discapito della popolazione che a gran voce chiede di superare la divisione dello Stato secondo il power sharing delle varie comunità che non ha prodotto ricchezza, per fare invece scelte utili alla vita di tutti». 

La terribile esplosione del 4 agosto si può leggere alla luce di questa rivisitazione storico politica? «Esattamente. Il fatto che questo magazzino contenente materiale esplosivo sia stato per tanti anni incontrollato è indicativo di una politica che non si fa carico della sicurezza della popolazione. È il segno che la classe politica ha fallito nel difendere e nel prendersi cura degli abitanti al di là delle professioni di fede». 

Chi è questa classe politica? «Il Libano è un caso unico rispetto ad altri Paesi del Medioriente perché ha sempre potuto presentarsi attraverso due elementi distintivi: una classe media relativamente più ampia rispetto ad altri paesi della regione ma anche un alto livello culturale. Oggi il fallimento della politica si vede nella contrazione di questa stessa classe media fino al tracollo totale. La classe politica che è uscita dalla guerra civile, è stata coinvolta nelle fasi dell’accordo di Ta’if in Arabia Saudita nel 1989 che avrebbe dovuto ricomporre le ferite materiali, morali e comunitarie e permettere di passare da una logica personalistica dove le diverse comunità difendevano i propri interessi particolari a un luogo dove esse avessero la propria rappresentanza ma al tempo stesso dove si operasse a favore di tutti. La storia testimonia che si sono creati due grandi poli di coalizioni che al loro interno sono miste e dove i cristiani sono diventati l’ago della bilancia tra la parte sunnita e quella sciita, rappresentata principalmente da Hezbollah».

Uno Stato non più strumento della politica… «No, anzi assaltato da parti politiche che estraggono la propria rendita dalla presenza delle istituzioni. Questa logica si è vista anche nella querelle che ha accompagnato l’elezione del presidente Michel Aoun. Oggi assistiamo a un Libano a rischio implosione nel momento della più grande crisi a seguito del fallimento del sistema interno. Conseguenza è la contrazione delle libertà di espressione. Un fenomeno sconosciuto perchè il Libano è sempre stato aperto, in assenza di uno stato centrale forte, e ogni comunità aveva una sua voce. Oggi a causa di questa polarizzazione si corre il rischio di riprodurre la frantumazione».

Un’impasse di difficile risoluzione. Quali sono le prospettive a livello politico? «Il rischio è che il Libano non sia in grado di auto riformarsi, che diventi sempre più un incubatore di tensioni, fortemente permeabile e penetrabile e quindi in una situazione di instabilità. Il Paese resterà in vita ma questo non significa che la condizione di vita delle persone sarà migliore. Bisognerà vedere come l’aiuto a livello internazionale verrà somministrato per rispondere a un problema di sicurezza delle persone (in termini di problemi quotidiani come il lavoro, l’energia, l’acqua) di fronte a uno Stato che necessita di ricostruire la sua rappresentanza interna. È necessaria una riforma del Paese per poter costruire una politica nuova sul lungo periodo. Non ci sono soluzioni prefabbricate. L’aiuto dall’esterno, economico e non, può solo accompagnare il Libano tenendo presente che da un lato c’è una crisi interna fortissima a livello sociale ma anche pratico (si pensi ad esempio che l’erogazione della corrente non è mai stata continua, con forti differenze tra le varie aree del paese e che la situazione ora sta solo peggiorando) e dall’altro che tutto il Medioriente è su un piano inclinato molto ripido da Israele alla Palestina, dal Golan alla Siria, dalla Giordania all’Iraq».

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