di Claudio Bernardi *

Come sta il Carnevale, la più grande festa popolare di un tempo? Malissimo. Come tempo rituale. Benissimo. Come virus culturale. Non c’è mai stato infatti così tanto carnevale fuori dal tempo di Carnevale. 

Festa della licenza e della sovversione, garantite dall’anonimato delle maschere, il Carnevale ha cominciato a perdere colpi con l’avvento della democrazia dell’opulenza e con il declino dello spirito di sacrificio. In Italia, a parte le fortissime eccezioni di alcune località come Venezia, Ivrea, Viareggio, Acireale, il Carnevale si riduce a festa e sfilata di bambini in maschera. Morto, dunque?

No. I caratteri salienti del Carnevale, il mascheramento e le maschere che trasformano in altro da sé, i comportamenti fuori di testa, favoriti dall’eccesso di alcol, la messa in caricatura di tutto e di tutti, l’inversione delle regole quotidiane, la derisione dei potenti e l’esaltazione dei deficienti non appartengono più solo al periodo di Carnevale. Sono straripati dal tempo specifico del Carnevale. Li troviamo in altri tempi, come Halloween o Capodanno, nei luoghi della movida giovanile, nel rave party. Il carnevale fuori dal Carnevale sta quindi benissimo. Da festivo è diventato feriale. 

Il virus carnevalesco non si ferma alla vita notturna, festiva o vacanziera, contagia anche sfere delicate della vita pubblica e privata. Soprattutto impazza nei social. Sapevate che il cuore del Carnevale è la guerra? Oggi è ridotta a nuvole di coriandoli e innocue stelle filanti, ma un tempo volavano sassi, poi diventati proiettili alimentari. Se andate a Ivrea c’è ancora la battaglia delle arance. 

Il Carnevale era un grande esperienza rituale, dunque sostenibile, del caos, dell’aggressività, del malessere e della violenza che si sprigiona quando si lascia libero il desiderio di ognuno. Il Carnevale era una terapia collettiva di espressione dell’inconscio, della parte notturna, delle paranoie e frustrazioni dei singoli e della collettività. Riconoscere, esprimere e sfogare ciò che è nascosto serviva a sfogarsi, purificarsi da, liberarsi da, concentrando tutte le rabbie, I livori e l’odio contro capri espiatori immaginari: le figure simboliche dei fantocci. 

Ad esempio le comunità del varesotto e del comasco un tempo bruciavano il fantoccio di una strega all’ultimo giovedì di gennaio (perciò chiamata gioeubia). Intendevano bruciare la natura vecchia, simbolo di ciò che è sterile, non dà fiori né frutti, e propiziare così la primavera. La vecchia prima di essere bruciata subiva un processo in cui veniva accusata di tutti i mali e le malefatte commessi dalla comunità e nella comunità. Lei era la colpevole di tutto e perciò condannata al rogo. Brucia la vecchia, ma è un fantoccio. Cioè si brucia il peccato e non il peccatore. 

Recentemente nel bruciamento gioeubia, a Busto Arsizio, la strega aveva le fattezze della presidente della Camera. Se la figura simbolica prende l’aspetto di una persona reale si torna al precristiano e reale sacrificio di uomini e donne considerati la causa di tutti i mali. E non è quello che succede nella piazza mediatica dove non si contano le vittime dei proiettili mediatici di immagini, parole, insulti e infamie? Oggi ne uccide di più il web che la spada. Nel web le cose non si fanno per scherzo, ma sul serio.

A Carnevale ogni scherzo vale. Ma sappiamo quando è Carnevale. Quando inizia e finisce. Se il Carnevale dura tutto l’anno ed è in tutti i luoghi, la festa non è più festa. Diventa un incubo. Tutto è caos. Non c’è più il rito. Solo il dito. Nell’occhio.

* Docente di Drammaturgia e di Antropologia della rappresentazione, facoltà di Lettere e Filosofia, campus di Brescia e Milano