«Suicidio assistito significa che il medico aiuta intenzionalmente una persona competente, che lo richieda volontariamente, a porre termine alla propria vita, somministrando un farmaco in grado di indurre la morte». Sono parole chiare quelle che esprime il professor Massimo Antonelli, direttore del Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica e del Dipartimento di Scienze dell’emergenza anestesiologiche e della rianimazione della Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS di Roma, a cui abbiamo chiesto un parere medico sulla sentenza della Corte costituzionale in tema di suicidio assistito.

Qual è la differenza sostanziale tra l’assistere il suicidio del paziente e il rifiuto delle cure sproporzionate? «L’atto attivo del medico di assecondare la richiesta di suicidio del paziente non è da confondere con la possibilità che chiunque trovandosi in una condizione di dipendenza e di insostenibilità, ed essendo in uno stato cosciente, esprima un rifiuto delle cure che ritiene, o che sono, oggettivamente sproporzionate. Si tratta di due situazioni totalmente diverse e nel primo caso il comportamento del medico contrasta palesemente con il codice deontologico e con il patto terapeutico stipulato tra medico e paziente. Il medico ha un mandato di cura secondo il quale deve rispettare la vita, difenderla e proteggere il paziente dalla sofferenza, alleviandola per quanto possibile. Il medico che assiste il suicidio mette a rischio l’integrità morale della sua stessa professione perché è come se si rifiutasse di aiutare il paziente nei suoi stadi più delicati».

Con la decisione della Corte costituzionale si va incontro a qualche deriva? «Ci troviamo di fronte a un piano inclinato, scivoloso. Intanto vorrei sottolineare che ci stiamo esprimendo su un comunicato stampa e non su una sentenza. Poi vorrei fare riferimento all’articolo “Physician-Assisted Suicide and Euthanasia: Emerging Issues From a Global Perspective”, pubblicato lo scorso anno nella rivista scientifica Journal of Palliative Care.
Qui si evince che in Paesi come Olanda e Belgio le regole riguardanti il suicidio assistito possono essere violate, forse non intenzionalmente, portando in alcuni casi alla somministrazione di un farmaco letale senza un chiaro consenso del paziente che si trova in fase terminale. In Belgio e in Olanda anche l’eutanasia è legalizzata, ed i report pubblicati in letteratura hanno evidenziato casi di violazione delle regole di salvaguardia. Nel 2011 sono stati somministrati farmaci letali senza un vero e proprio consenso del paziente nell’1,7 dei casi delle morti verificatesi nella regione fiamminga del Belgio e nello 0,2% di tutte le morti in Olanda. Questi dati sono preoccupanti, non possiamo non tenerne conto».

Quali sono i rischi per i pazienti? «Potrebbe esserci un rischio per le persone che sono in condizioni di maggiore fragilità. Consideriamo che la maggior parte delle richieste di suicidio assistito sono soprattutto riferite a pazienti con tumori terminali. Tali richieste sono dalle 4 alle 7 volte più frequenti tra coloro che hanno una diagnosi di cancro e manifestano una sindrome depressiva, rispetto ai pazienti ugualmente terminali ma senza questa sindrome. La metà dei casi di pazienti ammalati gravemente e irreversibilmente che richiedono inizialmente il suicidio assistito cambia parere, quando il controllo dei sintomi migliora attraverso le cure palliative e il supporto psicologico è adeguato».

Quali sarebbero le implicazioni economiche di un’eventuale approvazione di una legge sul suicidio assistito? «La legalizzazione può offrire un abbrivio per una alternativa economica nei confronti della possibilità di cure palliative e compassionevoli che hanno inevitabilmente un costo. Ci sarebbe dunque un evidente risparmio economico. Uno studio canadese ha calcolato che la legalizzazione del suicidio assistito del paziente morente potrebbe ridurre le spese sanitarie fino a 138 milioni di dollari. Questa deriva economicistica con una monetizzazione della sofferenza è una follia che non dovrebbe proprio essere presa in considerazione».

Come si dovrebbe porre la classe medica di fronte alla decisione della Corte? «Al di là della capacità di autodeterminazione del paziente la possibilità che questo si estenda alle persone più fragili è elevata e spesso basata sulla incapacità o inadeguatezza delle cure palliative erogate. Il suicidio assistito trasgredisce quella regola che noi medici nell’arco dei secoli abbiamo sempre considerato inviolabile: guarire e palliare coloro che sono sofferenti ma mai dare o infliggere intenzionalmente la morte sia pure richiesta dal paziente»

Cosa si può fare per migliorare ancora il sostegno ai pazienti in condizioni di grave sofferenza? «Dobbiamo muoverci nella direzione di tutelare il malato dalla sofferenza e offrire migliori cure palliative laddove necessario, piuttosto che assecondare le richieste disperate di chi non ha potuto ricevuto un supporto adeguato. Sempre considerando, ovviamente, la facoltà del rifiuto delle cure quando siano sproporzionate. Si tratta di investire  e ottimizzare le risorse nel percorso della palliazione e del supporto psicologico e sociale del malato e dei suoi familiari, migliorando ciò che già ci si sforza di fare ogni giorno».