di Federica Argiolas *

Pole pole è stata forse la prima espressione in lingua Swahili che ho imparato al mio arrivo alla Casa Famiglia Rosetta a Tanga, terza città della Tanzania per numero di abitanti. “Pole pole” significa “piano piano”, e non è un caso che sia stata un’espressione ricorrente nel mese trascorso alla missione affacciata sull’Oceano Indiano: è proprio pole pole che scorre la vita lungo le strade assolate dell’Africa, dove passano bambini allegri in divisa che tornano da scuola, donne che un passo dopo l’altro trasportano lentamente sul capo ceste di frutta, “dalla dalla”, piccoli autobus stipati all’inverosimile che, appunto, pole pole collegano i villaggi alla città.

Pole pole, dal 26 Luglio, insieme alla mia compagna di avventura Maria Cristina, ho iniziato a conoscere i bambini e i ragazzi che vivono nella struttura, dapprima con un po’ di timidezza, che però ci hanno pensato loro a spazzare via in un attimo. Facevano a gara a imparare i nostri nomi, alle loro orecchie probabilmente strani, e condividevano con noi giornate meravigliose fra bagni nell’oceano, lezioni di canto, e giochi di ogni tipo – durante i quali ho ripetuto decine di volte “pole pole!” ai bambini, quando il gioco si faceva troppo agitato. 

Le mattine, inizialmente, erano dedicate ad alcuni bambini con disabilità che per questo motivo non andavano ancora a scuola, nonostante ne avessero già l’età. Una delle emozioni più forti è stata quando li abbiamo accompagnati a comprare la divisa e poi li abbiamo visti tornare dal loro primo giorno di scuola: la gioia che trasmettevano con lo sguardo non si può descrivere a parole. 

Il dispiacere maggiore è stata la difficoltà linguistica con cui ci siamo scontrati: nonostante la fortissima voglia di comunicare, la barriera della lingua è stato l’unico ostacolo, specialmente con i ragazzi più grandi, con cui avremmo voluto farci una bella chiacchierata, ma spesso ci siamo dovuti limitare a quello che il mix di inglese, swahili e italiano ci ha consentito.

Pole pole mi sono abituata al ritmo africano, alla giornata in cui luce e buio si equivalgono tutto l’anno, al profumo fruttato del mango succoso e all’odore dei cibi fritti lungo le strade, ai colori, ai suoni (anche il canto dei galli e la preghiera dell’imam che ci svegliavano all’alba!). 

Ho cominciato a guardare con occhi diversi la città e i villaggi che abbiamo visitato al fine di portare gli abitanti a conoscenza del servizio di fisioterapia offerto gratuitamente per i bambini con disabilità della regione di Tanga. Lo shock iniziale ha lasciato il passo alla curiosità, quella bella, che non giudica ma, conservando la disposizione allo stupore, vuole aprire ad un tentativo di comprensione. 

Non è facile, per chi vive in case dotate di ogni comfort, immaginare la vita di persone che abitano in una capanna di fango e legno; ed entrarvi, per me, accolta con un sorriso da una mamma con il suo bambino in braccio, ha significato rendermi conto di quanto poco sappiamo della vita di persone che condividono il nostro stesso pianeta, e di quanta delicatezza è necessaria nell’accostarsi a chi proviene da una cultura diversa e lontana. 

Ho pensato a quanto spesso ci permettiamo di parlare di realtà che non conosciamo se non per pregiudizi e per sentito dire. Durante una delle ultime visite ai villaggi ho pianto perché, a confronto con la capanna di qualche giorno prima, ho dovuto considerare “di lusso” una casa quasi completamente vuota solo perché aveva più di una stanza e il pavimento.

Pole pole mi sono sentita a casa, considerata una “di famiglia” dai bambini e dagli operatori, locali e italiani, dell’associazione; non ho mai provato la sensazione di essere nel posto sbagliato: grazie ai bambini sono un po’ tornata bambina anch’io e mi sono affidata a loro non meno che loro a me.

Senza nemmeno accorgermi è arrivato il momento di salutarli: in quella situazione, in mezzo alla festa dell’ultima sera, vestita con un abito in pieno stile tanzaniano di cui mi è stato fatto dono e, con in mano i disegni che i ragazzi ci hanno regalato, ho capito che la difficoltà linguistica è servita a farmi scoprire che il linguaggio universale è quello dell’amore, che non conosce differenza di idiomi, di cultura o di colore della pelle. Proprio questo linguaggio mi ha permesso di dare e, soprattutto, di ricevere moltissimo da quei bambini che, ora, conosco per nome e porto nel cuore, con la certa speranza che potranno sempre seguire i loro sogni e avere l’occasione di realizzarli, avverando un futuro luminoso come i loro occhi.

* 25 anni, di Bergamo, secondo anno della laurea magistrale in Consulenza pedagogica per la marginalità e la disabilità, facoltà di Scienze della formazione, campus di Milano