La democrazia, disse Abramo Lincoln in uno dei suoi più celebri discorsi, è il «governo del popolo, dal popolo, per il popolo». Verso quel «popolo» che Lincoln celebrava solennemente come il detentore del potere sovrano, i Padri costituenti americani erano stati in realtà molto più diffidenti. Memori della pessima fama che la forma di governo democratica aveva lasciato, vollero impedire che la nascente repubblica fosse lacerata dalle lotte tra fazioni. E proprio per evitare che l’elezione del presidente degli Stati Uniti potesse scatenare lo scontro delle passioni politiche e mettere a rischio la pace, consegnarono a un collegio di grandi elettori il compito di scegliere chi dovesse essere il capo dell’esecutivo. Come tutti sanno, già pochi anni dopo il sistema congegnato dai costituenti si rivelò inefficace, e l’elezione si trasformò di fatto in un’elezione diretta.

In più di due secoli di storia, i timori nutriti dai delegati riunitisi a Philadelphia si rivelarono d’altronde quasi del tutto infondati, e il popolo non si trasformò in quella folla passionale solleticata da abili demagoghi dai cui volubili umori si intendeva preservare la repubblica. Ma duecentoventinove anni dopo, le elezioni presidenziali del 2016 hanno invece palesato proprio ciò che i Padri fondatori avevano temuto. Se nel 2008 la marcia travolgente di Barack Obama verso la Casa Bianca aveva mostrato al mondo – e agli operatori della comunicazione – la potenza dello storytelling, le elezioni del 2016 ci hanno invece fatto entrare nell’era della “post-verità”.

E da una campagna elettorale estenuante, combattuta venendo meno a ogni regola di fair play e con gli strumenti della più bieca denigrazione dell’avversario, è uscito come inatteso trionfatore Donald Trump. E cioè quel candidato che all’inizio delle primarie repubblicane sembrava solo una comparsa del grande circo elettorale americano, ma che, mese dopo mese, macinando vittoria dopo vittoria, è riuscito a diventare il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti.

Nei giorni successivi alla vittoria di Trump molti hanno evocato lo spettro di una nuova barbarie e l’incubo di una fatale minaccia per la democrazia, mentre altri hanno finito col cedere al fascino del vincitore, salutando nel nuovo inquilino della Casa Bianca una novità capace di dare nuova linfa al rinsecchito albero della democrazia. Alla vigilia del nuovo quadriennio, è ovviamente molto difficile prevedere in quale direzione l’amministrazione Trump si muoverà, se davvero romperà tanto nettamente con le politiche di Obama, e se manterrà – in tutto o in parte – le promesse fatte in campagna elettorale in materia di controllo dei flussi migratori, di politica estera, di politica economica. Forse più che formulare previsioni è utile in questo momento riflettere su ciò che ha rappresentato l’elezione di Donald Trump e sulle motivazioni che hanno condotto a un risultato che – comunque la si pensi – rappresenta uno shock destinato a lasciare una traccia profonda.

Molti commentatori hanno indicato tra le cause del successo del miliardario newyorkese l’impatto della crisi economica sul tessuto della società americana, l’aumento delle diseguaglianze sociali e il declino di quel ceto medio che rappresentava il più robusto sostegno dell’american way of life. In questo senso la polemica di Trump contro Wall Street e contro l’establishment non sarebbe altro che la reincarnazione di quel vecchio populismo agrario che, sul finire dell’Ottocento, impugnò la bandiera del “sogno americano” contro la “plutocrazia” delle grandi corporations.

Ma se certo Trump attinge a piene mani a quella retorica populista che vista dall’Europa (ma anche da New York) può apparire rozza e naïve, sarebbe ingenuo trascurare il fatto che le sue impreviste fortune nascono anche da una sorta di rivalsa “nativista” (per non dire razzista) contro tutti gli “alieni”, covata negli otto anni della presidenza Obama. Ogni spiegazione di questo genere correrebbe però il rischio di rimanere incompleta se non si riconoscesse uno degli elementi davvero cruciali che queste elezioni segnalano. E che non riguarda tanto le paure nutrite dal ceto medio americano o la protesta contro le élite – di cui certo non si può negare la portata dirompente – quanto le stesse modalità con cui questi sentimenti sono stati capitalizzati politicamente.

Le elezioni americane dimostrano infatti una progressiva tendenza alla polarizzazione, che già altre consultazioni in Europa avevano segnalato negli ultimi anni, e che porta a una progressiva radicalizzazione dei messaggi politici. L’elettore mediano, e cioè quell’elettore collocato al centro del mercato politico che per almeno mezzo secolo era stato l’arbitro della competizione elettorale, non sembra più avere un ruolo decisivo. In tempi di disaffezione e disincanto, lo strumento cruciale per vincere diventa mobilitare gli elettori potenzialmente astenuti con messaggi fortemente radicali, estremi, “politicamente scorretti”. E per campagne di questo genere non sembrano più essenziali né le strutture di partito né la conquista di spazi televisivi. Perché molto più efficaci diventano strutture di comunicazione personali, capaci di penetrare dei reticoli dei social network, di inserirsi nelle “bolle” informative in cui una notizia verosimile – o in qualche caso inverosimile – può diventare una realtà dimostrata e incontrovertibile, quasi impossibile da scalfire persino con le più sofisticate argomentazioni. Ed è forse proprio anche questo il dato su cui dovremo ragionare in profondità.

Certo possiamo squalificare la retorica dei nuovi leader definendola “populista”, possiamo biasimare la propaganda che percorre i reticoli dei social network, e possiamo persino invocare la responsabilità degli operatori della comunicazione. Ma dobbiamo essere consapevoli che tutti questi strumenti rischiano di essere armi spuntate in un mondo di “bolle” informative, in cui gli elettori si trovano rinchiusi in spazi sempre più autoreferenziali. E che anche per questo, per difendersi dall’avanzata del “popolo della paura”, serve davvero poco tornare a sventolare l’antico, polveroso vessillo della “paura del popolo”.

* Editoriale del numero 6/2016 del bimestrale "Vita e Pensiero"