La morte della diplomazia viene profetizzata, senza mai realizzarsi, da oltre un secolo. E invece le relazioni tra Stati assumono un valore fondamentale proprio oggi che le forze nazionaliste e anti-globalizzazione vanno per la maggiore in Europa e nel mondo. È un messaggio di realismo e di speranza quello che Sir Ivor Roberts ha portato nella sua lezione promossa da Alta scuola in economia e relazioni internazionali (Aseri) e da centro di ricerca sulla Cultura e narrazione del viaggio dell’Università Cattolica. 

Lo fa alla luce della sua lunga esperienza di diplomatico, già ambasciatore britannico a Roma e presidente del Trinity College di Oxford fino al 2017. Accanto a lui Arturo Cattaneo, direttore del Cenvi, e Vittorio Emanuele Parsi, direttore dell’Aseri.

La lezione di sir Roberts si apre con un’analisi dei casi in cui la diplomazia non ha saputo svolgere il proprio ruolo in modo efficace, dalla Grande guerra all’odierno conflitto contro lo Stato islamico. Anche l’epilogo del referendum sulla Brexit nel suo Paese, dice, è stato in qualche modo imputabile a un dialogo fallimentare tra regole europee e rivendicazioni nazionali. E questa incomunicabilità ha prodotto il trionfo di partiti euroscettici e nazionalisti nelle ultime elezioni politiche, quelle in Italia e in Ungheria. 

Da ultimo, la decisione di Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme è stata una mossa controproducente dal punto di vista dell’equilibrio diplomatico. «Ma queste» - dice Roberts - «sono eccezioni, ben lontane dall’essere la regola. In Europa, per esempio, le guerre nei Balcani degli anni ’90 sono state risolte attraverso un sapiente mix di diplomazia ed uso della forza. Anche l’annunciato e storico meeting tra il presidente Usa e Kim Jong-Un è il punto d’arrivo di un paziente lavoro di cucitura svolto dalla Corea del Sud e dal suo presidente Moon Jae-In. Tutt’altra cosa rispetto alla “diplomazia dei tweet” a cui ci ha abituato Trump». 

Il discorso si sposta inevitabilmente sull’attualità, sul dramma siriano e l’attacco missilistico condotto dagli Usa contro i depositi di armi chimiche di Assad. «Siamo giunti a questo punto perché in passato è mancato un adeguato esercizio della diplomazia» è l’opinione di sir Roberts. «Il supporto occidentale ai ribelli ha dato nuova linfa al regime, e ha condotto a un’escalation inaspettata, con conseguenze orribili per i civili. Abbiamo tutti ancora negli occhi le immagini drammatiche degli ultimi giorni. Negoziare una tregua con i gruppi jihadisti sarebbe stata la migliore soluzione. Gli interventi dall’esterno finalizzati a rovesciare un regime hanno sempre avuto un effetto destabilizzante».

Nonostante ciò, Roberts non stigmatizza la recente offensiva statunitense. «È stata un’azione limitata, mirata e senza conseguenze per i civili. Si è resa necessaria, perché se permettessimo ad Assad di usare impunemente le armi chimiche, allora potremmo anche cancellare la Convenzione del 1993. Tuttavia, sarei del tutto contrario a ogni intervento militare che coinvolgesse direttamente la Russia». 

Sul punto si apre un dialogo con il professor Parsi, che propone un punto di vista differente. «Se a Douma è stato Assad a far uso di armi chimiche», dice il direttore Aseri, «è impossibile che l’abbia fatto senza l’accordo della Russia, che esercita un’influenza enorme sulla politica del regime. Se la responsabilità è russa, quindi, è la Russia che si sarebbe dovuta colpire: si è scelto di non farlo, dando un ampio preavviso dell’attacco, che quindi non ha avuto alcuna conseguenza concreta per Putin». «L’evoluzione della diplomazia negli ultimi dieci anni, a partire dalla crisi finanziaria del 2007», continua Parsi, «non deriva dal multilateralismo, che c’è sempre stato: ma dal fatto che Cina e Russia si rifiutano di riconoscere il ruolo e la supremazia degli Stati Uniti, e hanno preso una direzione politica inconciliabile con quella occidentale».