di Lucia Masetti *

Se un anno fa qualcuno mi avesse detto: “Farai volontariato in Etiopia”, probabilmente gli avrei dato del pazzo. O forse avrei risposto come il Bilbo Baggins di tolkieniana memoria: “Non sappiamo che farcene delle avventure. Brutte fastidiose e scomode cose! Fanno far tardi a cena!”.

Eppure, in un momento di distrazione, mi sono ritrovata partecipe di questo progetto. Non sono sicura del come, e tantomeno del perché. L’unica cosa che so, è che fin dall’inizio questo viaggio ha messo in discussione molte cose che mi sembravano sicure.

Ero partita con l’idea peregrina di poter essere utile in qualche modo. Ho dovuto presto rendermi conto che non solo la missione in sé, ma anche i singoli bambini, procedevano egregiamente senza il mio aiuto. A volte mi ha sfiorato il sospetto che se la sarebbero cavata persino meglio senza di me. Insomma, un senso di fallimento su tutta la linea.

Poi mi è tornata in mente una frase di Enzo Bianchi, sentita chissà dove: “Fa’ che incontrandoti qualcuno abbia più fiducia nel mondo, in sé, negli altri: questo basta a giustificare la tua venuta al mondo”.  Ecco, non so se questo sia successo; però so che, quantomeno, ho tentato. E se Dio vuole, magari il mio volontariato non è stato del tutto inutile come avevo pensato.

Mi torna in mente, in proposito, un piccolo episodio di “utile inutilità”. Si sa che, per far giocare molti bambini, una palla è praticamente essenziale: così un giorno abbiamo deciso di fare un salto in città per comprarla, accompagnati dai nostri nuovi amici Leul e Diyan. Si tratta di due fratelli (rispettivamente di 17 e 15 anni) che abitano a pochi passi dalla scuola: perciò capitavano lì tutti i giorni, per giocare o semplicemente per chiacchierare con noi. Ci hanno anche scortato, gentilmente, nei nostri rari giri per la città (va detto che come guardie del corpo non erano molto promettenti, essendo più o meno la metà di noi; ma come guide erano ottimi).

Ora, essendo Leul un appassionato di calcio, non ci aveva sfiorato il sospetto che non possedesse una palla (tanto più che la sua famiglia sembrava stare relativamente bene). Tuttavia, non appena gliel’abbiamo messa in mano ci siamo rese conto dell’enorme regalo che gli avevamo fatto.

Nessuna di noi due è particolarmente dotata per il calcio; per essere esatti, la mia disperante incapacità può essere definita solo come “non classificabile”. Ma nonostante avesse compagne di gioco così scarse, Leul era al settimo cielo. Non credo di aver mai visto una faccia illuminarsi a quel modo: sembrava che gli avessimo avvitato dentro una lampadina. Ricordo di aver pensato: “Bene, potrei anche tornare a casa in quest’istante. Missione compiuta”.  E si trattava di una banalissima palla.

L’esperienza di volontariato in Etipoia, benché materialmente abbiamo fatto ben poco, a parte perdere ad ogni gioco concepibile, mi ha insinuato il sospetto che, forse, sono qualcosa di più di quello che pensavo di essere. Per esempio, la Lucia che conosco non sarebbe mai partita per l’Etiopia, né mai avrebbe messo piede su un campo da football: ne consegue che io debba essere qualcosa di diverso da quella Lucia, anche se questo non implica necessariamente che sia brava nelle cose che faccio. Inoltre, da un punto di vista razionale posso dire di essere stata piuttosto inutile, il che però contrasta con alcune osservazioni pratiche: ergo anche il concetto di utilità personale ha bisogno di una revisione.

A ogni modo, l’elenco delle “cose che non avrei mai pensato” è appena agli inizi. Di certo visitare un Paese così lontano (culturalmente, più ancora che geograficamente) ti mette di fronte a una mentalità molto diversa da quella “normale”. E le differenze colpiscono specialmente riguardo le cose più banali.

L’incontro con la cultura etiope ha prodotto anche dei misunderstanding, alcuni dei quali piuttosto comici. Uno dei primi giorni, ad esempio, una pallonata di Leul ha colpito accidentalmente Isabella sulla gamba, strappandole un “ahia!” di dolore. Abbiamo notato che Leul sembrava perplesso e un po’ arrabbiato, ma non ci abbiamo fatto troppo caso. Poi, la sera, è arrivata l’illuminazione: «Ce l’avevano spiegato ieri: “ahia” in amarico vuol dire asino! Ora penserà che l’abbiamo insultato!». Ed era proprio così, come abbiamo scoperto il giorno dopo. Ovviamente, la nostra imbarazzata spiegazione ha destato ilarità, non solo in Leul ma anche nei bambini, che da quel momento hanno cominciato a urlare simpaticamente “ahia!” quando si facevano male. In conclusione: se in Etiopia scoppierà una guerra, probabilmente sarà colpa nostra: qualcuno avrà detto “ahia” guardando nella direzione sbagliata.

Pur con tutte le difficoltà e i misunderstanding del caso, l’incontro “astratto” con una cultura diversa non è poi così impossibile da affrontare: una volta che capisci i meccanismi alla base, sai più o meno cosa aspettarti. Anche l’alfabeto sarà difficile, ma a furia di ripeterlo lo impari. Al contrario, incontrare le persone di quella cultura è immensamente più difficile.

E adesso? Adesso il mio timore è che tutto questo resti, alla fine, sterile. Mi spiego: quando sono tornata a casa, l’effetto è stato straniante; quelle due realtà erano così incompatibili che una delle due sembrava necessariamente meno reale dell’altra. Ho fatto un lungo sogno di tre settimane – mi sono chiesta – o forse sto sognando adesso?

Questa allora è la mia domanda: cosa me ne faccio dei miei ricordi? Cosa me ne faccio di questo senso di ingiustizia? Cosa me ne faccio della mia “inutilità utile”? Attualmente la mia risposta è: non lo so. Una parte di me sperava che questo viaggio mi avrebbe aiutato a capire dove andare. Come l’Alice di Carroll, mi trovo persa in un mondo strano, nel quale sto cercando “la mia strada”: e questa strada non la vedo ancora.

Tuttavia questo viaggio ha rafforzato la mia intuizione iniziale: che la strada può costruirsi attraverso i percorsi più inaspettati, purché si dica di sì – volta per volta – alla realtà che ci sta davanti. Come è successo a Suor Sandra, che avrebbe dovuto stare in Etiopia per un anno o due, e ci è rimasta per quarant’anni.

Per cui, se proprio vogliamo trarre una morale dalla vicenda, io trarrei questa. Tutto sommato, vale la pena di imbarcarsi nelle “avventure” che la vita ti propone. E poi bisogna avere la pazienza (e la sincerità) di far decantare i ricordi nel cuore: rimeditarli, perché diventino esperienza. Così, forse, le tessere del puzzle andranno a poco a poco al loro posto.

* 24 anni, di Cavaria (Va), studentessa del secondo anno del corso di laurea magistrale in Lettere moderne, facoltà di Lettere e filosofia, campus di Milano