di Silvia Malacarne e Martina Marchesi *

Qui sono le quattro del pomeriggio. In Italia sono le undici della sera. Mentre noi siamo nel pieno di una giornata andina e cerchiamo di scaldarci dal freddo dell’inverno con gli ultimi raggi di sole, a casa i condizionatori sono accessi ed è quasi ora di andare a dormire. Siamo in un altro emisfero. Siamo in un altro continente. Siamo oltreoceano. E tutto si muove a testa in giù.

Il primo dei tanti “sbalzi” con cui ci siamo scontrate è stato passare bruscamente dalla grigia e caotica Lima, all’azzurro del cielo dei quattromila metri delle Ande peruviane. Perché il Perù è un po’ così: si sale e si scende, si ansima dal caldo e si trema dal freddo, ci si tuffa dall’estate all’inverno e senza nemmeno rendersene conto, dopo un breve pisolino in autobus, si aprono gli occhi e ci si trova in un altro mondo.

Noi viviamo ad Ayaviri, una piccola cittadina nella regione di Puno, la regione del Lago Titicaca. Qui la sveglia non è indispensabile, anche perché se ti dimentichi di puntarla i primi raggi del sole entrano dalla finestra molto presto. Qualunque cosa si debba fare durante la giornata, la colazione diventa una tappa fondamentale: a questa altitudine l’ossigeno è poco e tutte le azioni di vita quotidiana richiedono molta energia.

Per uscire di casa al mattino ci vestiamo pesante, con cappello, sciarpa e guanti; piano piano la giornata prende il ritmo e ci dividiamo tra attività, laboratori e incontri, ma ogni momento libero è prezioso per goderci il sole, l’unica vera fonte di calore, che ci permette di rigenerarci. All’improvviso ci sorprende il tramonto, si guarda l’orologio, ma sono solo le cinque. Il freddo si impone puntuale. La notte è buia, ma basta alzare gli occhi al cielo per rimanere incantati dalla miriade di stelle, che come un tappeto avvolgono i nostri pensieri. Ora capiamo perché gli inca erano astronomi così raffinati.

Il progetto di cui ci occupiamo si chiama Sumaq Llankay, che in lingua quechua significa “buon lavoro”. Il tema che affronta è quello dell’economia solidale, con l’obiettivo di rafforzare l’organizzazione dei produttori locali (settore tessile, agricolo e artigianale), promuovere modelli alternativi di sviluppo e tutelare il ruolo della donna come parte attiva nei processi di produzione e nell’ambito istituzionale.

Suamq Llankay è il motivo per cui abbiamo scelto il Perù come meta del nostro Charity Work Program. Questa esperienza sul campo ci sembrava un naturale completamento del nostro percorso di studi. Come studentesse di cooperazione internazionale sentivamo l’esigenza di scontrarci con la realtà di cui abbiamo letto tanto sui libri. Sumaq Llankay ci ha permesso di mettere le mani in pasta e aprire gli occhi al mondo. Quello che abbiamo anche scoperto durante il nostro viaggio, è che le distanze culturali si accorciano grazie all’universalità dei valori in cui crediamo, che creano un linguaggio comune, pur parlando lingue diverse.

L’economia solidale parla infatti il linguaggio universale dell’attenzione sociale alle diverse realtà che operano sul territorio, della compartecipazione nella realizzazione di progetti di sviluppo condivisi, della democrazia decisionale, della responsabilità verso l’ambiente e la sostenibilità intergenerazionale. Principi che ogni comunità può interiorizzare e coltivare in base alle proprie radici storiche e culturali.

A chi chiedeva come immaginasse la società del Duemila, Fabrizio De André rispondeva: «Una società per lo più nomade, separata da due diverse fruizioni dell’economia. Da una parte la vecchia economia di mercato riservata a chi riuscirà a scambiare ancora il denaro contro la merce, e dall’altra un’economia che si potrebbe definire del dono, del mutuo scambio, se non addirittura del mutuo soccorso; penso che gli individui che utilizzeranno questa seconda forma di scambio saranno più numerosi degli altri e probabilmente migliori, diciamo pure più ricchi da un punto di vista spirituale».

Ci meraviglia e ci sorprende ritrovare nelle parole di un poeta e cantautore italiano del nostro tempo una filosofia che la tradizione storico-culturale andina ha sintetizzato nel concetto di ayne, il mutuo aiuto, la base del vivere comunitario di quest’area del mondo.

Torniamo a casa con una prospettiva ribaltata, con un mondo nuovo scoperto e con i ricordi di un inverno a testa in giù.

* Silvia, 24 anni, di San Rocco al Porto (Lo) e Martina, 24 anni di Bollate (Mi), studentesse del secondo anno del corso di laurea magistrale in Politiche per la Cooperazione Internazionale allo Sviluppo, facoltà Scienze politiche e sociali, campus di Milano