di Adriano Pessina *

La vita del piccolo Charlie, in Inghilterra, non è sospesa all’uso delle macchine che lo aiutano a vivere ma all’uso delle sentenze e delle parole con cui si cerca di stabilire che cosa sia meglio fare per lui.

Non è facile capire la sentenza con cui la Corte Europea dei diritti umani ha reso legittima la sospensione dei trattamenti sanitari nei confronti di Charlie. A prima vista sembra che al centro della decisione ci sia il convincimento che in questo momento sia stata superata la soglia della cura proporzionata e adeguata alla condizione patologica del bambino e si sia aperta una fase che solitamente viene definita di “accanimento clinico”.

Può una Corte esprimere una simile valutazione attraverso la lettura di motivazioni e di controdeduzioni? E come stabilire il vissuto del bambino - davvero sta soffrendo, davvero l’intervento gli provoca pene che non può esprimere? - sulla base del “saputo”, cioè attraverso una diagnosi che resta pur sempre una dimensione ipotetica rispetto al vissuto stesso, per quanto suffragata da dati scientifici?

La scelta dei genitori non può essere liquidata semplicemente come ostinazione e merita ancora prudente ascolto.

Da osservatori esterni non è possibile esprimere una valutazione ponderata e adeguata sulla situazione clinica, ma c’è da augurarsi che le istituzioni che si sono espresse sulla base dei pareri medici inglesi non siano state influenzate da teorie aprioristiche sulla qualità della vita che sono sempre l’anticamera della discriminazione nei confronti delle persone con gravi disabilità. Impedire ai genitori di ricorrere a una possibile prassi sperimentale lascia perplessi in un’epoca in cui la migliore medicina sembra essere sempre aperta alla sperimentazione e alla speranza della cura.

Le persone hanno bisogno di chiarezza. Charlie non è un caso giuridico su cui sperimentare nuove interpretazioni delle carte dei diritti e la tenuta delle competenze scientifiche: è un bambino che prima di tutto deve essere custodito nella sua fragilità e in ogni caso, fosse davvero bene sospendere i trattamenti, ha diritto a un accompagnamento alla morte che coinvolga anche i suoi genitori. La foga mediatica non aiuta certo alla comprensione.

* direttore del Centro di Ateneo di Bioetica