di Andrea Danneo, Antonio Di Francesco, Marianna Di Piazza

È il primo indicatore quantitativo di sintesi che misura lo “stato del merito” in un Paese. A realizzare il Meritometro, un gruppo di ricercatori dell’Università Cattolica, tra i quali Paolo Balduzzi e Alessandro Rosina, insieme al Forum della Meritocrazia. Uno strumento che delinea un quadro sconfortante per l’Italia: secondo il rapporto 2016 occupiamo l’ultima posizione nel ranking che mette a confronto 12 Paesi europei (vedi il grafico nella foto).

«Lanciato per la prima volta nel 2015, questo indice nasce da una mancanza» afferma Balduzzi, ricercatore in Scienza delle finanze del Dipartimento di Economia e finanza. «Nel dibattito italiano si sente spesso parlare di meritocrazia senza possedere le competenze adeguate per poterla definire. C’è anche un’esigenza dal punto di vista politico. Spesso gli interventi governativi sono presentati come migliorativi per lo stato della meritocrazia, ma fino ad ora non si possedevano gli strumenti per misurarla. Abbiamo pensato perciò di sviluppare questo strumento, un indice sintetico compreso tra 0 e 100, che indica quanto è meritocratico un Paese, con l’idea di trovare dei pilastri attraverso cui definire la meritocrazia».

Quali sono questi pilastri? «La libertà economica e politica innanzitutto. Poi, le pari opportunità anche tra generazioni, la qualità del sistema educativo, l’attrattività per i talenti, la struttura delle regole, la trasparenza e la mobilità in senso sociale. Per ognuna di queste dimensioni qualitative sono stati individuati alcuni indicatori già esistenti, sviluppati da organizzazioni internazionali come l’Ocse e l’Eurostat e sintetizzati in un unico indice che fornisce un valore da 0 a 100. Più alto è il valore e più il Paese è meritocratico».

Le cose per noi non vanno bene… «L’Italia è ultima in tutti questi fattori. Analizzare il rapporto tra i diversi Paesi, tenendo conto di un solo indice sintetico e ignorando le differenze storiche, sociali e culturali può essere fuorviante. È più interessante vedere come evolve un singolo Paese nel tempo, se è peggiorato o migliorato rispetto all’anno precedente. Miriamo a valutare l’impatto delle policies, cosa che in Italia non è stata mai fatta».

Parlando di politiche pubbliche, quanto incidono le recenti riforme del governo Renzi per rilanciare la meritocrazia? «È ancora presto per dirlo, se vogliamo utilizzare il Meritometro come parametro di riferimento. Politiche come il Jobs Act, riforme di rientro e circolazione dei cosiddetti cervelli e l’Italicum sulla carta sembrano essere buone. Il vantaggio dato dal nostro indice è di poter assegnare un valore all’impatto futuro che esse avranno. Per questo sarà possibile valutarle quando avranno l’anzianità sufficiente».

E cosa si può dire su “La Buona scuola”? «La riforma potrebbe influenzare la qualità del sistema educativo. Dare certezza ai docenti o prevedere interventi rilevanti per quanto riguarda le strutture sono buone idee e sembra vadano nella direzione giusta. L’impatto sarà da misurare nel tempo».

Il nepotismo resta uno dei maggiori limiti del nostro Paese. Le recenti riforme possono contribuire ad eliminare questo aspetto che sembra culturale? «L’idea che i canali per ottenere una posizione non siano quelli tradizionali (merito e curriculum), ma le conoscenze e le parentele, scoraggia le persone che cercano lavoro. Il nepotismo è un fattore culturale e quindi è difficile cambiarlo con delle semplici riforme. Non vedo ancora interventi per mettere fine a tale cultura. Sarebbe interessante provare a ribaltare il punto di vista. La raccomandazione è una pratica utilizzata in maniera trasparente all’estero. Le referenze dei precedenti datori di lavoro, ex professori o colleghi sono degli strumenti utili per decidere se assumere o meno il candidato. In Italia manca questa trasparenza».

Possiamo sperare in un cambiamento? «Sono abbastanza pessimista. Se ci limitiamo ai risultati del Meritometro, non ci sono segnali positivi: l’Italia peggiora. Siamo di fronte a una realtà poco dinamica dal punto di vista delle politiche, in particolare per i giovani. Forse siamo l’unico Paese che non capisce che le nuove generazioni vanno valorizzati e non penalizzati. In Europa, gli italiani sono quelli più disposti ad andare all’estero: tra le motivazioni c’è il fatto che non credono di avere opportunità in Italia. I tedeschi invece scelgono l’estero per esigenze culturali, non credono di dover lasciare il loro Paese per trovare lavoro».

Qualche suggerimento? «Uno degli aspetti cruciali è l’attrattività dei talenti, rendere l’Italia attrattiva per gli italiani stessi. Andare all’estero non è un problema in sé, creare le condizioni per tornare invece lo è. Rendere l’estero una scelta e non un obbligo è una sfida che deve risolvere il Paese. È importante essere attrattivi anche per i giovani stranieri. Riuscire ad attrarre altre culture più aperte della nostra, aiuterà a scardinare certi meccanismi culturali come il nepotismo».