Abbiamo chiesto ad alcuni professori dell’Università Cattolica di spiegare le origini e gli sviluppi della nuova crisi mediorientale e di aiutarci a capire quali strumenti si possono adottare per spegnere la miccia di una situazione esplosiva.

di Antonio Zotti *

L’ondata d’instabilità innescata dell’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani ha messo ancora una volta in evidenza gli stringenti limiti dell’influenza che gli attori europei esercitano nella regione mediorientale e nordafricana. Come al solito, è nell’Unione europea in quanto attore della politica internazionale che questa impotenza strategica trova la sua massima manifestazione. È infatti prevedibile che la riunione straordinaria dei ministri degli esteri dei Paesi membri, convocata dall’Alto rappresentante Borrell su iniziativa dei governi britannico, francese e tedesco, si limiterà al compito declaratorio di ribadire la “profonda preoccupazione” dell’Unione e a esortare a una riduzione della tensione.

Paradossalmente, l’inadeguatezza delle politiche estere e di difesa europee è stata rimarcata anche dalla precisazione da parte delle autorità irakene che la mozione parlamentare che esortava l’espulsione dei militari stranieri non si riferiva ai contingenti europei: la permanenza di questi ultimi è infatti strettamente condizionata alla sicurezza che tuttora solo le forze statunitensi sono in grado di garantire a tutti i militari impegnati in missioni di peacekeeping e di addestramento. Le divergenze politiche fra Stati Uniti ed Europa generate dalla crisi iraniana evidenziano le carenze strategiche di quest’ultima.

L’Ue in particolare vede messo in discussione quello che è considerato il suo maggior successo di politica estera: il Piano d’azione congiunto globale – noto come accordo sul nucleare iraniano – finalizzato a prevenire in maniera concertata lo sviluppo da parte iraniana di armi nucleari negoziato e in buona parte implementato dall’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Dopo il colpo inferto all’accordo nel 2018 dalla decisione dell’amministrazione Trump di uscirne unilateralmente, l’esistenza stessa del piano è messa in serio dubbio dall’annuncio dell’Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran che, a seguito dell’attacco americano, il programma nucleare del Paese non sarà più vincolato da alcuna restrizione operativa, inclusi i processi di arricchimento dell’uranio necessari alla produzione di armi nucleari.

Si può dunque concludere – anche alla luce dell’attivismo di paesi come la Russia e la Turchia in Libia e in Siria – che la crisi iraniana innescata dall’azione unilaterale statunitense sia un’ulteriore, se non addirittura la definitiva, conferma dell’irrilevanza internazionale dell’Unione europea e dell’Europa in generale? Anche se la prestazione europea appare chiaramente deludente, vale comunque la pena qualificare questo giudizio.

A tal proposito, proprio l’accordo sul nucleare offre un’utile prospettiva. Al di là della prudenza rispetto all’effettività volontà iraniana di demolire del tutto il piano, va anche ricordato che l’Iran ha reso noto di essere disposto a ritornare entro i termini dell’accordo, a condizione di vedere eliminate le sanzioni di cui è attualmente oggetto e di beneficiare delle contropartite economiche previste dall’accordo. Ciò dimostra come la dimensione economica dell’Ue rimanga una risorsa strategica potenzialmente rilevante, come pure la reputazione di attore relativamente affidabile perché rispettoso delle regole dell’ordine internazionale. Tuttavia, fino a quando l’Unione non avrà acquisito una maggiore autonomia strategica – che permetta ad esempio alle imprese europee di importare materie prime e prodotti iraniani senza temere troppo le “ritorsioni” americane – o, meglio ancora, non sarà in grado di ravvivare le ragioni alla base della comunità atlantica, e quindi a influire maggiormente sugli orientamenti dei propri alleati e interlocutori, la propria irrilevanza non potrà che rimanere tale, per quanto qualificata.

* docente di Istituzioni europee, corso di laurea interfacoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere e di Scienze politiche e sociali, campus di Milano