Nell’emergenza Covid hanno fatto notizia, accanto a medici e infermieri, anche i sacerdoti. Molti perché, per stare vicini ai malati negli ospedali e nelle case di riposo, hanno contratto la malattia e, talora, sono anche deceduti. Tutti perché non hanno abbandonato la vicinanza alle persone colpite in maniera diretta o indiretta. Tra di loro anche molti assistenti pastorali o docenti di teologia dell’Università Cattolica, che, accanto al loro impegno in Ateneo, sono stati in prima linea su diversi fronti


Essere di aiuto alle persone non conosce limiti: qualunque sia l’età e ovunque ci si trovi anche i gesti apparentemente più semplici possono portare sollievo. Ne abbiamo parlato con don Raffaele Maiolini, teologo, sacerdote della diocesi di Brescia e docente alla sede bresciana dell’Università Cattolica. Inoltre è parroco di sette paesini in Val Sabbia e direttore dell’Ufficio educazione scuola e università della diocesi di Brescia.

Lei è su molti fronti. In questa situazione, per esempio con gli studenti, come si pone di fronte a chi si fa molte domande? «Avendo centinaia di studenti, la mia scelta è stata di videoregistrare le lezioni e nella prima ho voluto dedicare alcuni minuti per dire come io stavo vivendo da insegnante questo momento. Io credo che noi adulti non dobbiamo insegnare nulla, ma testimoniare come si possa vivere e morire, gioire e soffrire. Da prete ho assicurato agli studenti la mia preghiera e il mio ricordo, soprattutto per le persone che dentro questa grave emergenza stavano vivendo momenti di difficoltà. Questa cosa ha portato tantissimi studenti a rispondere personalmente, a condividere e a ringraziare. Una reazione che mai mi sarei aspettato, neanche in un tempo normale. Al di là della lezione, l’esigenza soprattutto in questo momento è di una compagnia nella preghiera. Ora sono anche cappellano alla Clinica Sant’Anna di Brescia e alla Clinica di Ome del gruppo San Donato per portare la mia assistenza ai defunti e al personale». 

In questo caso lei è doppiamente coinvolto perché nell’ospedale non solo i pazienti, ma anche i medici sono sottoposti a uno stress enorme. Non dimentichiamo poi il fatto di poter piangere i propri defunti. «Qualcuno o ha avuto un lutto in famiglia o è entrato in ospedale altrimenti non capisce che cosa è il Covid-19. Io non lo avevo capito nonostante fossi stato costretto a una quarantena. Per i defunti la cosa che mi ha sorpreso è stata la cura con cui il personale della lavanderia, che gestiva la sala mortuaria vista la vicinanza tra i reparti, ha accompagnato i defunti. Queste donne mi hanno fatto vedere le carezze che davano alle bare, chiamando i morti per nome e pregando per loro. Nella clinica di Ome in questi due mesi i decessi sono arrivati a 172 rispetto a una media che in origine era di 60 all’anno».

Dalle persone con cui è entrato in contatto c’è questa paura della morte che può arrivare da un momento all’altro? «Penso che lo shock sia stato all’inizio. E poi per il personale ospedaliero c’è una deontologia professionale, una qualità diversa: prendersi cura dell’altro e considerare la sua vita più importante della propria. Per questo motivo la preoccupazione era di non contagiare familiari o altri. Non erano abituati a così tanti morti. Quindi per loro la modalità con cui disporre i morti necessitava una riflessione per conservare la loro dignità».

La dignità del defunto sembra un aspetto secondario, ma non lo è: accompagnare nell’ultimo viaggio sembra una ritualità ma in realtà aiuta molto i familiari e gli amici. È forse la privazione più forte in questa situazione? «Dice bene. Dovremo accompagnare i familiari. Da parroco l’ho vissuto. Sono presente in sette parrocchie. La cosa più terribile è stata non poter piangere i loro morti cristianamente senza un rito comunitario. Quando è mancato il defunto più giovane (circa 60 anni), siamo riusciti a concordare con le onoranze funebri che il carro potesse fermarsi sotto casa della moglie per un momento di preghiera». 

Lei ha detto che è parroco di sette paesi di montagna. Generalmente questi paesi non sono ben collegati e quindi sono passati da una situazione di quasi isolamento a un isolamento più marcato. Come hanno vissuto questa condizione i suoi parrocchiani? «Bisognerà riscoprire questi paesi perché per loro l’isolamento sociale è normale. Non è cambiato tanto. Questo ha portato gli abitanti ad avere una struttura esistenziale maggiormente capace di far fronte all’emergenza perché abituati a queste difficoltà. Si è però avuto un atteggiamento di maggiore leggerezza. Ora invece la preoccupazione è diventata più percepibile».

Secondo lei, che conseguenze ci saranno dal punto di vista spirituale quando finirà tutto questo? «Penso che all’inizio avremo molte richieste in chiesa perché adesso la voglia di andare a una messa o poter vivere una celebrazione comunitaria è davvero forte. Toccherà a noi preti essere bravi ad accompagnare lungo i percorsi che potrebbero aprirsi. La tentazione più grande sarebbe di tornare pre febbraio 2020 e quindi riprendere la nostra vita come prima. Su questo punto il nostro vescovo continua a insistere: dobbiamo convertirci e cambiare vita. E in questo credo che chi viva una fede religiosa, come anche i musulmani del centro islamico locale che hanno vissuto il Ramadan, si augura che questo tempo di misericordia porti a uscire diversamente». 


Sesto di una serie di articoli dedicati all’impegno dei preti assistenti pastorali o docenti di teologia dell’Università Cattolica sul fronte Coronavirus