Nell’emergenza Covid hanno fatto notizia, accanto a medici e infermieri, anche i sacerdoti. Molti perché, per stare vicini ai malati negli ospedali e nelle case di riposo, hanno contratto la malattia e, talora, sono anche deceduti. Tutti perché non hanno abbandonato la vicinanza alle persone colpite in maniera diretta o indiretta. Tra di loro anche molti assistenti pastorali o docenti di teologia dell’Università Cattolica, che, accanto al loro impegno in Ateneo, sono stati in prima linea su diversi fronti


«Pur essendo da tempo attivo in parrocchia, a un certo punto della mia vita ho conosciuto la realtà dei Frati e ho sentito che il Signore mi stava raggiungendo attraverso la loro testimonianza concreta». Fra Carlo Cavallari, cultore della materia in Teologia all’Università Cattolica, parla così del suo passato, che oggi lo porta a essere membro attivo nel centro Milano Aiuta, all’interno del Convento di Sant’Antonio di Milano. 

«Da 7 anni, condivido la vita con i poveri che, nell’accezione Francescana, definirei “fratelli che si trovano in una situazione di difficoltà”. La nostra non è un’erogazione di servizi, ma un incontro di persone. Il bisogno, come una doccia o un pasto caldo è solo il punto di partenza di un cammino più ampio non solo da parte dei bisognosi, ma anche da parte nostra. La vita è fatta di relazioni e le relazioni non hanno scadenza, ci sono persone che vengono da noi da tanti anni e con queste siamo cresciuti e continuiamo a tenerci in contatto. Ci vuole molto tempo per instaurare relazioni perché, a volte, un’umanità ferita ci mette molto di più a fidarsi e ad aprirsi. Questa è la cosa che ci dà più gioia e che risponde meglio alla nostra vocazione».

La parola chiave del vostro centro è incontro. In un periodo in cui la socialità è pericolosa per la salute pubblica, come è cambiata la vostra attività al centro Milano Aiuta? «Questa è la cosa più difficile per noi. Prima della pandemia, chi veniva qui passava dal centro e, così, iniziavamo a conoscere la sua storia. Questo primo approccio, oggi, è venuto meno e si è fatto più essenziale. Cerchiamo, nonostante la situazione difficile, di creare con i bisognosi una connessione: basta un sorriso, una domanda o semplicemente una cura particolare nella preparazione e confezione dei piatti. Per esempio, prima della distribuzione dei pasti, ci raccogliamo in un momento di preghiera e dopo mettiamo un po’ di musica. Questa pratica permette di vivere quel momento in modo più leggero ed è risultata utile soprattutto i primi tempi, in cui avvertivamo un forte senso di paura». 

Sono aumentate le richieste d’aiuto? E le proposte di collaborazione da parte di volontari? «Se prima distribuivamo circa 90 pasti al giorno, ora arriviamo anche a 150, con picchi di 175. Alcune categorie tra i bisognosi sono indubbiamente aumentate: tra queste i cinesi, solitamente molto attivi sul lavoro, ma che in questo periodo hanno dovuto chiudere le attività. Proprio perché molte persone hanno più tempo libero, abbiamo ricevuto moltissime proposte di aiuto, ma per tutelare la salute di tutti, abbiamo preferito non accoglierle, se non per rarissimi casi».

Nel centro incontra ogni giorno molte persone. Quale storia le è rimasta più impressa in questo periodo particolare? «Ultimamente stiamo sentendo molto meno storie, purtroppo. Il contatto con le persone è stato molto ridotto. Nonostante ciò, mi è rimasta impressa la storia di un ragazzo italiano che ha sempre viaggiato molto per l’Italia e per l’Europa, vivendo il lavoro come unica via di fuga e riscatto e tralasciando alcune dimensioni della propria vita, come la dimensione relazionale. Solo in questo periodo, questo ragazzo mi ha confessato di aver riscoperto il valore delle relazioni e del chiedere aiuto».

Le celebrazioni sono ferme ormai da tempo, ma dal 18 maggio sono state di nuovo aperte al pubblico. Come vi siete organizzati? «La Chiesa è sempre stata aperta per celebrare la messa, ma a porte chiuse e solo per la fraternità. Chi ne aveva desiderio poteva entrare a pregare, sottostando alle regole di distanziamento previste». 

Come prevede si svilupperà la vostra attività in un futuro? «Sicuramente dobbiamo rivedere i nostri spazi. La mensa, per esempio, può accogliere un massimo di 108 persone, numero che diminuisce radicalmente se si mettono in pratica le misure di distanziamento. Per ora stiamo procedendo con la distribuzione dei pasti nei sacchetti, ma in un futuro si dovranno attuare dei cambiamenti. Quello che ci aspettiamo è che la nostra modalità di aiuto diventi una modalità condivisa, puntando sempre più a una capillarità. Milano esprime tantissime potenzialità in questo: sarà sempre più importante creare punti distinti di distribuzione e condivisione per evitare grandi assembramenti, favorendo così la qualità della relazione rispetto ai numeri». 

Quarto di una serie di articoli dedicati all’impegno dei preti assistenti pastorali o docenti di teologia dell’Università Cattolica sul fronte Coronavirus