Domenica 20 e lunedì 21 settembre gli italiani si recheranno alle urne per decidere, in concomitanza con le elezioni regionali e comunali, se confermare o meno la riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari, portando i deputati alla Camera da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. Si tratta di un referendum confermativo che, a differenza di quello abrogativo, non prevede il raggiungimento di un quorum di affluenza, per cui l’esito è valido indipendentemente dalla percentuale di partecipazione degli elettori. Per fare chiarezza sul tema e capirne qualcosa di più abbiamo chiesto agli esperti dell’Università Cattolica di entrare nel vivo della questione al di là delle ragioni partitiche che dividono il Paese. Il nostro Speciale referendum


«Non voto SÌ per umiliare il Parlamento ma per restituire senso alla rappresentanza parlamentare». Filippo Pizzolato, docente di Dottrina dello stato nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica, è tra quelli che hanno deciso di schierarsi a favore del referendum perché afferma «è la leva» che abbiamo a disposizione per mandare ai partiti un «segnale di maggiore autorevolezza nella selezione della classe politica» e innescare cambiamenti nel Paese. 

Professor Pizzolato, ci spiega la sua decisione? «Premetto che il mio è un SÌ critico perché giudico questa riforma incompleta e perfino ambigua in alcuni messaggi. Tuttavia, ed è la ragione per cui mi sono deciso a sostenere il SÌ, credo che possa veicolare un messaggio, a mio avviso, indifferibile e fondamentale: restituire maggiore autorevolezza alle istituzioni, penalizzate dal degrado dei partiti. La mia idea è che questo referendum, al di là delle intenzioni di alcune parti che l’hanno promosso, possa innescare trasformazioni positive che potranno riflettersi in un’assunzione di maggiore responsabilità da parte dei partiti nella selezione della classe politica». 

Com’è arrivato a questo ragionamento? «La prima premessa è che considero il dibattito male impostato: c’è una drammatizzazione eccessiva che trovo incomprensibile, come se questa riforma fosse lo stravolgimento del Parlamento o la sua umiliazione. A forza di lanciare allarmi, non avremo parole quando le riforme saranno davvero stravolgenti. La seconda premessa è che spesso s’imposta la questione tra chi vuole “offendere” la Costituzione, riducendo i parlamentari, e la difesa della Costituzione. Ma questa è un’impostazione sbagliata perché chi vota No, in realtà, non difende la Costituzione, poiché l’idea di rappresentanza politica che la nostra Costituzione contiene e veicola non è in alcun modo – e lo sottolineo – oggi inverata e realizzata dalla mediazione dei partiti. Per cui non siamo al cospetto di una scelta di difesa della Costituzione e l’azzardo di una riforma, ma tra una riforma possibile e l’attuale manipolazione della rappresentanza politica». 

Perché pensa che la rappresentanza politica sia venuta meno? «Sono partito dai dati che Demos, l’Istituto presieduto dal professor Ilvo Diamanti, periodicamente trasmette e divulga sul grado di fiducia dei cittadini nelle istituzioni. In questa classifica, stabilmente da dieci anni a questa parte, i partiti sono all’ultimo posto, con un grado di fiducia che oscilla tra il 5 e il 9%. Al penultimo posto c’è il Parlamento. Ora, credo che questo dato debba allarmare tutti perché significa che il Parlamento è l’istituzione che soffre più di tutte del discredito di cui “godono” i partiti».  

Per uscire da questa situazione basterà il referendum? «Non è riducendo il numero dei parlamentari che automaticamente si risolve il problema. Questo è evidente. Qualcuno sostiene che sarebbe stato meglio avviare una riforma dei partiti… Ma io mi domando e domando a tutti: ma è credibile che oggi la classe politica, questi partiti, ci diano una riforma che li costringa alla democraticità interna e al radicamento territoriale? È assolutamente un’illusione che si parta dal cuore dell’autoreferenzialità partitica. Dalla reazione spropositata delle forze politiche, si capisce benissimo che questa riforma le colpisce nel vivo del loro potere: la distribuzione di rendite». 

Circa duecento i docenti di Diritto costituzionale hanno sottoscritto un appello in cui motivano le ragioni del No. Che cosa ne pensa? «La riduzione del numero dei parlamentari comporterà la necessità per le liste in competizione di raggiungere consensi più elevati per accedere alla rappresentanza. Questo è un fatto incontestabile e matematico».

Cioè? «Essendo meno i seggi per accedere alla rappresentanza parlamentare bisognerà avere più voti: se ci sono 1000 seggi e il sistema è di tipo proporzionale si accede con una certa percentuale di consensi; se i seggi si riducono naturalmente questa percentuale cresce». 

L’effetto di riduzione del pluralismo politico è allora possibile… «La mia obiezione a questo è che i partiti, e purtroppo non solo quelli piccoli, non sono espressione di un autentico e vitale pluralismo sociale, per cui mi pare decisamente forzato sostenere che, limitando la rappresentatività di alcuni piccoli partiti, vi sarebbero componenti del corpo sociale che non accederebbero più alla rappresentanza. Vediamo piccoli partiti sorgere più per l’insofferenza e il narcisismo di leader che non riescono a stare come galli in uno stesso pollaio. Siamo in grado - come corpo elettorale - di apprezzare davvero una differenza di corpo sociale di riferimento, che so, tra Renzi, Calenda? Perciò la riduzione dei parlamentari, a mio avviso, potrà produrre come effetto una spinta al riaccorpamento che toglie potenziale di ricatto a piccole forze e non penalizza in alcun modo il pluralismo sociale. Penso piuttosto che il problema sia un altro: il Senato a 200 dovrà essere oggetto di ulteriore riforma. Mi auguro, ma su questo non ho evidentemente certezze - ma nessuno ne ha! - che si possa arrivare a un modello di Senato di tipo federale e cioè di differenziare il principio rappresentativo espresso dal Senato in modo che questo rifletta la vitalità dei territori. Così si potrebbe provare ad affrontare il senso della crisi di rappresentatività». 

Non era meglio fare prima una riforma elettorale? «È già successo in passato che si cambiasse la legge elettorale con l’idea che tanto sarebbe poi cambiata la Costituzione, e mi riferisco all’Italicum. Fare la riforma elettorale prima della riforma della Costituzione rischia di dare per scontato un esito del referendum che scontato non è. Bisognerebbe poi smettere di pensare alla legge elettorale in proiezione dell’interesse strategico delle forze politiche: mi pare che a oggi non ci sia né dalla maggioranza né dalle opposizioni una proiezione di senso sulla legge elettorale. Mi rendo conto che la mia visione è piuttosto pessimistica: siamo in una fase in cui è necessario che arrivi un segnale forte di riforma che un provvedimento di questo tipo, depurato dalle ambiguità, può trasmettere».

Una delle ambiguità è che col taglio dei parlamentari si riducono i costi della politica… «Non ho mai usato e non userò mai nella mia personale campagna l’argomento del taglio dei costi perché è un argomento indubbiamente misero e pericoloso. Ciò nondimeno, dal momento che tutto il Paese attraversa una fase di difficoltà economica, un segnale di maggiore sobrietà nelle forze politiche sarebbe opportuno senza però indebolire le istituzioni democratiche. Attenzione però: la riduzione del numero dei parlamentari non pregiudica in alcun modo la funzionalità del Parlamento, perché, ad esempio, il lavoro delle commissioni può essere mantenuto e reso più efficiente dall’accorpamento delle commissioni stesse. La rappresentanza dei territori viene garantita – in attesa di una riforma in senso federale - dal fatto che in Senato, anche le regioni più piccole avranno un numero di senatori minimo costituzionalmente garantito. Mi rendo conto che è un messaggio che può suscitare ambiguità. Ma sono convinto che valga la pena perseguire questa strada vigilando attentamente che non sia interpretata nel senso dell’antiparlamentarismo».