di Vittorio Emanuele Parsi *

Più che la brutalità e la violenza delle modalità di azione dell’aviazione militare turca e delle milizie jiahdiste che combattono al soldo di Ankara, quello che potrebbe fermare l’offensiva contro la Repubblica del Rojava, l’enclave curda nella Siria settentrionale, è il suo stesso successo. Nella medesima giornata in cui si diffondevano i raccapriccianti dettagli del martirio dell’attivista curda per i diritti umani Hevrin Khalaf (violentata e poi lapidata per strada), si è appreso di un accordo tra le forze curde che difendono Qamishli e inviati russi. 

Proprio grazie alla loro mediazione, sarebbe stata raggiunta un’intesa per il dispiegamento delle truppe dell’esercito regolare del regime di Asad a difesa della città, le quali evidentemente dovrebbero poter contare della copertura politica e militare della Russia. 

Nelle ultime 48 ore, del resto, la situazione per Putin si faceva sempre meno tollerabile. Seppur costretto a consentire l’avvio dell’attacco turco dal voltafaccia americano, il leader del Cremlino era tutt’altro che favorevole a una iniziativa che avrebbe potuto mettere a repentaglio il delicato equilibrio e lo sbocco verso il quale si andava assestando la situazione in Siria, di cui Mosca è l’artefice e la principale beneficiaria. 

Non va infatti dimenticato che, anche a seguito delle titubanze mostrate dall’amministrazione Obama nel 2015, Mosca era entrata con decisione nella guerra civile, stabilendo un’intesa di fatto con l’Iran in grado di ribaltare l’inerzia di un conflitto che sembrava volgere decisamente a sfavore del regime siriano, storico alleato della Russia fin dai tempi dell’Urss. A quell’asse era stata successivamente associata come junior partner la Turchia di Erdogan, al quale si offriva una via di riscatto per la fallimentare e velleitaria politica neo-ottomana attuata nel corso dell’intera vicenda delle primavere arabe (in Tunisia, Egitto, Libia e nel Levante). 

L’offerta di Putin ad Asad non era determinata da una cordialità di rapporti umani, da affinità personale e men che meno dal buono stato delle relazioni russo-turche (in Siria i turchi, oltre ad appoggiare le milizie jahdiste ostili al regime, comprese quelle legate all’Isis, avevano anche abbattuto un caccia russo), ma piuttosto dalla possibilità di accelerare e approfondire il progressivo allontanamento della Turchia dagli Stati Uniti e dalla Nato. In chiave strategica, stabilizzando il regime di Asad e stringendo relazioni con Iran e Turchia, Mosca vedeva la possibilità di esercitare un’influenza perlomeno riequilibratrice rispetto a quella americana nel Golfo, instaurando un dialogo da una posizione di forza verso l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman e contemporaneamente di indebolire il fianco sud dell’Alleanza Atlantica, allentando oltretutto la percezione russa di chiusura degli Stretti e di soffocamento del Mar Nero (sempre più rilevante nella visione di Putin, ricordiamoci l’annessione della Crimea).

Il turbolento trilatero russo-iraniano-turco però non è di facile gestione, se solo si considera l’insoddisfazione per lo status quo e per il rango loro riconosciuto che contraddistingue tanto Teheran quanto Ankara (e in una certa misura persino Mosca). Putin di conseguenza è ben conscio di non poter opporre troppi recisi e assoluti dinieghi alle iniziative talvolta avventurose dei suoi due partner: l’Iran in Yemen e la Turchia in Siria, né di poter far spallucce delle rispettive paranoie per la sicurezza. Ma non può sopportare che l’iniziativa dell’uno o dell’altro comprometta i risultati complessivi (ma ancora provvisori) perseguiti nella regione. Così acconsentire controvoglia a una limitata operazione militare contro le forze dell’Ypg è un conto, permettere un reinsediamento di centinaia di migliaia di profughi sunniti siriani in una zona cuscinetto sottratta in maniera permanente alla sovranità siriana che possa compromettere la stabilizzazione del regime di Asad è un altro. 

È una Siria sotto il controllo del regime-cliente di Asad il perno della strategia russa nel Medio Oriente, non la Turchia di Erdogan. Per quest’ultima, oltre l’ambizione di avvicinarla a se stessa, allontanandola sempre più da Stati Uniti ed Europa non si può andare e Putin questo lo sa molto bene. Non solo. Il possibile rinvigorirsi del “califfato islamista dell’Isis” è qualcosa che la Russia non intende minimamente assecondare.

Per ora Erdogan sostiene che il riposizionamento russo non cambierà i suoi piani. Vedremo se si tratta di una tattica di narrazione che prelude a un mutamento di azione o se rappresenta un tentativo di guadagnare tempo. Quel che è certo è che anche il sultano, principalmente per ragioni di politica interna, non può troppo repentinamente acconciarsi alla possibile mutata realtà strategica. Il massacro dei curdi, condotto apparentemente in sfida al mondo, ne ha rialzato la popolarità, in calo per la prima volta come attestato dalle recenti elezioni amministrative (con il doppio schiaffo di Istanbul). L’aborto del progetto di un grande Kurdistan indipendente fu d’altronde la principale realizzazione della “guerra di indipendenza” condotta da Musatapha Kemal dopo la I guerra mondiale per costruire la Repubblica turca sulle ceneri dell’Impero ottomano. E il riflesso nazionalistico del toro turco ogni volta che gli si sventola davanti agli occhi il drappo curdo è scontato e istintivo. Una volta che lo si è scatenato, ricondurlo a ragione non sarà però né semplice né privo di rischi: persino per un giocatore cinico e privo di scrupoli come Erdogan.

* direttore dell'Alta Scuolal in Economia e Relazioni internazionali (Aseri) e docente di Relazioni internazionali alla facoltà di Scienze politiche e sociali