di Massimo Scaglioni *

«Un cinema della realtà, che preferisce confrontarsi coi temi del presente»: così ha tratteggiato il quadro d’assieme della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica numero 76 il suo direttore Alberto Barbera. Il cinema, in una fase cruciale di ridefinizione della sua identità legata all’innovazione tecnologica, ai player del mercato e alla sua stessa filiera (basti pensare al ruolo crescente di Netflix, presente al Lido con tre film importanti), cerca di ritagliarsi il ruolo di narratore del reale, di strumento di riflessione e interpretazione del mondo. E anche quando sembra “semplicemente intrattenere” – talvolta in modo egregio – prova a fornirci chiavi di lettura, bussole e radar che non siano banalmente schiacciati sull’immediatezza della cronaca. 

Un Festival del cinema – e Venezia è tornato ad essere un grande e ricco Festival – serve anche a questo: a capire quali sono i tratti identitari che le cinematografie mondiali intendono darsi nell’età delle trionfanti piattaforme globali, della pervasività digitale, dell’onnipresenza dei social media. E in questa 76esima edizione della Mostra abbiamo visto soprattutto film che affrontano, con i più diversi linguaggi e stili, urgenti questioni politiche, sociali e culturali del nostro presente. 

La Mostra è partita con due film che non potrebbero essere più diversi, eppure accomunati da un’attenzione particolare per il nesso fra individuo e società. Il primo è Ema, il film del regista quarantenne cileno Pablo Larrain: un autore, dunque, che aveva già narrato col suo sguardo la fine della dittatura di Pinochet (“No. I giorni dell’arcobaleno”) e un’intensa biografia di Jacqueline Kennedy (“Jackie”). In modo talvolta piuttosto crudo, carnale e talvolta un po’ folle, il film si interroga sul senso della famiglia nel tempo in cui i desideri individuali sembrano la sola, possibile guida per l’azione: una famiglia distrutta per un’adozione prima cercata e accettata, poi ritrattata e rifiutata. 

Il secondo film – che si candida, se non al Leone, certamente alla Coppa Volpi per l’istrionica, straordinaria interpretazione di Joaquin Phoenix, bravo quanto i suoi predecessori di ruolo Jack Nicholson e Heath Ledger – è una nuova espansione dell’universo “transmediale” di Batman: Joker (di Todd Phillips) è un blockbuster della Warner Bros. Costato quasi sessanta milioni di dollari, pare portarci nell’universo immaginario di Gotham City. Eppure, anche nel fantasy di un “origin movie” che intende ricostruire la geneaologia di un classico cattivo dei comics, il film vuol leggere in filigrana una società che sembra ribaltata dal ghigno di un clown: una città sporca, corrotta, dominata dal potere del denaro e invasa dalla spazzatura e dai topi, dove sono proprio i freaks, gli strambi, gli emarginati a “restare umani”. 

Eminentemente ed esplicitamente politico (e militante) è Adults in the room del maestro ottantatrenne Costa-Gavras, che racconta, col linguaggio della satira, la crisi del debito sovrano greco attraverso gli occhi (e il diario, alla base della sceneggiatura) dell’ex ministro dell’economia Yanis Varoufakis. Come anche lo straordinario documentario Citizen K (di Alex Gibney), che attraversa la storia recente della Russia, dai tentativi di transizione democratica degli anni Novanta all’edificazione del potere putiniano, e come anche il divertito e corrosivo The Laundromat (con la regia di Steven Soderbergh e una straordinaria Meryl Streep, affiancata da Antonio Banderas e Gary Oldman) che ci spiega perché l’elusione fiscale consentita dai paradisi fiscali e scoperchiata dai cosiddetti “Panama Papers” è faccenda che impatta sulle vite di tutti. Questi film assumono una forma ibrida, sospesa fra la finzione, il documentario divulgativo e il saggio politico. 

Seguono, in modi – e con esiti e ambizioni – diversi, il filone sviluppato dai brillanti lavori di Adam McKayLa grande scommessa” (sulla crisi finanziaria del 2007-08, all’origine della successiva depressione economica globale) e “Vice. L’uomo nell’ombra”(che narra l’ascesa politica di Dick Cheney, vice-presidente degli Stati Uniti sotto l’Amministrazione di George W. Bush). 

Il cinema visto alla 76esima Mostra Internazionale del Cinema cambia pelle e guarda sempre più al nostro presente, provando a trovarvi (e a offrire) un senso. Talvolta anche parziale, soggettivo, orientato, militante. In tempi di grande confusione e disorientamento non è certo un compito da poco. 

* docente di Storia dei media ed Economia e marketing dei media, facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere, campus di Milano