di Luca Peyron *

Il dibattito sulla candidatura dell’Italia ad essere sede del Tribunale Europeo dei brevetti e la querelle sulla città da candidare tra Torino e Milano, può essere una buona occasione per riflettere un momento sul significato dell’istituto brevettuale a maggior ragione nel tempo che viviamo. Il brevetto nasce per tutelare due beni ritenuti fondamentali dal Legislatore. Il primo è quello dell’inventore di essere riconosciuto tale e di essere remunerato, in modo diretto ed indiretto, per la sua invenzione e per gli investimenti fatti nella ricerca, somme oggi sempre più cospicue. Il secondo bene che la legge tutela è il bene pubblico, il bene comune, e lo fa dando un termine preciso entro cui il brevetto può essere oggetto di privativa. Il brevetto ha una scadenza affinché la scoperta o il ritrovato della tecnica possa essere nella disponibilità di chiunque. Per questa ragione alcuni ritrovati, la ricetta della Coca Cola per fare un esempio di scuola, non sono brevettati: dopo un tempo dato sarebbero di tutti. Da sempre vi è una disputa tra chi ritiene che il brevetto non debba avere una scadenza e chi ritiene che non dovrebbe esistere del tutto.

Oggi l’accelerazione tecnologica aggiunge un ulteriore elemento al dibattito che è quello di accorciare i tempi della privativa giudicati troppo lunghi rispetto alle reali esigenze del bene comune: come a dire quando l’invenzione sarà usabile da chiunque sarà così vecchia da essere inservibile. Non vorrei inoltrarmi in queste questioni, quanto piuttosto portare la riflessione del lettore su di un aspetto che la legge brevetti, tutte le leggi brevetti esistenti oggi, richiamano implicitamente: ogni scoperta scientifica ed ogni applicazione tecnica debbono essere prima di tutto una buona notizia per l’umanità nel suo complesso.

Il richiamo di Papa Francesco sulla disponibilità del vaccino per il Covid si innesta in questa precisa considerazione. L’industrializzazione prima e la trasformazione digitale poi hanno, invece, polarizzato altrove la nostra attenzione: alla remunerazione del brevetto. Si fa scienza per fare denari, si fa tecnologia per assicurarsi una rendita: i saperi e le scoperte hanno valore se hanno un prezzo. La scalata degli innovatori digitali ai ranking mondiali dei paperoni sembra dare ragione a questi pensieri. Questo atteggiamento culturale diventa deriva nel momento in cui istituisce come unico criterio di giudizio sulla realtà l’utilità pratica, la redditività, mix pernicioso di materialismo e consumismo. Parafrasando il Vangelo: se il sapere perdesse il suo sapore con che cosa lo si potrebbe rendere saporoso? Anche in questo il nostro ateneo continui a rispondere alla sua chiamata di essere sale della terra e luce del mondo.

* Docente di Teologia, Università Cattolica